Abbiamo bisogno di altra precarietà?

 

di Guglielmo Forges Davanzati

Stando alle ultime rilevazioni Eurostat, l’Italia è il primo fra i Paesi europei per numerosità di lavoratori scoraggiati, ovvero di individui che hanno smesso di cercare occupazione: circa il 3.5% della forza-lavoro si trova in questa condizione e, nella gran parte dei casi, si tratta di individui nella fascia d’età compresa fra i 20 e i 30 anni. Il fenomeno è imputabile a due circostanze: in primo luogo, alla bassa probabilità di trovare impiego (o un impiego coerente con le qualifiche acquisite), così che al crescere del tasso di disoccupazione aumenta la platea di lavoratori scoraggiati; in secondo luogo, è imputabile alla possibilità di garantirsi un reddito di sussistenza senza lavorare, possibilità che si determina nel caso in cui i consumi sono garantiti dai risparmi delle famiglie d’origine, o da redditi derivanti da occupazioni irregolari. Si tratta di un fenomeno preoccupante per due ordini di ragioni.

1) L’esistenza di un’ampia platea di lavoratori scoraggiati può segnalare il fatto che è ampia l’occupazione nell’economia sommersa, ovvero che chi smette di cercare lavoro nell’economia regolare lo fa perché ottiene reddito da attività illecite. Si può ritenere che si tratta, in questo caso, di individui con basso reddito e con basso livello di istruzione.


2) I lavoratori scoraggiati traggono risorse per i propri consumi prevalentemente dai risparmi delle loro famiglie. Il che genera progressiva compressione dei risparmi e, nella misura in cui, l’accumulazione di risparmi è una precondizione per il finanziamento degli investimenti, ciò determina riduzione degli investimenti, della domanda aggregata e dell’occupazione. In più, poiché ad alta disoccupazione è associata bassa propensione a cercare occupazione, da ciò segue un ulteriore aumento della quota di lavoratori scoraggiati sul totale della forza-lavoro.


Si può osservare che questa dinamica acuisce il problema dell’assenza di mobilità sociale in Italia, in quanto rende possibile l’inattività a giovani la cui sussistenza è garantita dalla ricchezza accumulata dalle famiglie d’origine o a lavoratori reclutati nell’economia sommersa. In tal senso, un elevato tasso di disoccupazione, associato a inattività volontaria, contribuisce a perpetuare le differenze di status, in un Paese – l’Italia – che, stando alle ultime rilevazioni OCSE, è, con gli Stati Uniti e la Gran Bretagna, il Paese con la minore mobilità sociale fra i Paesi principali industrializzati.


A ciò si può aggiungere che la ricerca del lavoro si intensifica se è elevata la probabilità di ottenere un impiego coerente con le competenze acquisite e, dunque, considerato soddisfacente.


A fronte di questo scenario, il Governo sta lavorando per l’ennesima “riforma” del mercato del lavoro, in nome della “modernizzazione” delle relazioni industriali con la clausola del no-tabù. Come ha chiarito il Presidente Monti, infatti, le riforme del mercato del lavoro devono essere fatte senza alcuna preclusione di sorta, assumendo che ogni diritto possa essere negoziabile.


In merito a quanto il Governo si appresta a fare, la sola certezza della quale al momento si dispone è che si muoverà in tempi rapidi seguendo le ‘raccomandazioni’ della BCE. La maggiore “flessibilità” alla quale si fa riferimento passa innanzitutto attraverso l’abolizione dell’articolo 18 dello Statuto dei lavoratori. La ratio che è a fondamento di questa proposta risiede nell’idea che le imprese assumerebbero solo sapendo di poter facilmente licenziare. A ciò si aggiunge che, in una fase recessiva, si rende ancora più rilevante questo intervento per scongiurare il rischio di fallimento di imprese, a ragione dei vincoli che la legislazione vigente pone alla libertà di licenziamento.


Fin dal 2008, l’OCSE ha certificato che le politiche di precarizzazione del lavoro riducono la quota dei salari sul PIL, e che, nella gran parte dei Paesi industrializzati, non hanno determinato incrementi dell’occupazione. Le politiche di precarizzazione del lavoro, inoltre, incentivano le imprese a competere mediante compressione dei costi di produzione (salari e costi connessi alla tutela dei diritti dei lavoratori in primis), disincentivando le innovazioni. Ciò a ragione del fatto che, potendo ridurre i prezzi mediante riduzioni del costo del lavoro, le imprese non hanno interesse a introdurre miglioramenti organizzativi e/o innovazioni di processo e di prodotto, soprattutto laddove l’introduzione di innovazioni richieda spese ingenti ed elevato indebitamento nei confronti del sistema bancario.


A ciò si può aggiungere che sebbene la maggiore credibilità del licenziamento derivante dalla somministrazione di contratti flessibili possa ‘disciplinare’ i lavoratori, accrescendone il rendimento, questo effetto può essere controbilanciato dalla minore motivazione che un lavoratore ha nel caso in cui percepisca come probabile il non rinnovo del contratto. Si tratta di eventualità frequenti in contesti di alta disoccupazione e di facile sostituibilità dei lavoratori. Quest’ultima imputabile al fatto che le nostre imprese, nella gran parte dei casi, non esprimono domanda di lavoro qualificato e, dunque, possono attingere a una platea ampia di disoccupati, disponibili ad accettare salari bassi e peggioramento delle condizioni di lavoro.


E’ rilevante osservare che le politiche di precarizzazione esercitano effetti negativi anche sull’attività di ricerca del lavoro, sia perché contribuiscono a ridurre salari e occupazione, sia perché orientano la domanda di lavoro verso occupazioni di bassa qualità, proprio a ragione del fatto che scoraggiano modalità di competizione basate sull’introduzione di innovazioni e, dunque, sul miglioramento della qualità della domanda di lavoro. In tal senso, ulteriori accelerazioni delle politiche di precarizzazione del lavoro sono inutili e, sotto molti aspetti, controproducenti. Sono inutili dal momento che la precarizzazione del lavoro non accresce l’occupazione e, riducendo i salari, comprimono i consumi e la domanda interna, riducendo i mercati di sbocco – e dunque i profitti – per le (tante) imprese italiane che non operano sui mercati internazionali. Sono controproducenti poiché – rendendo le condizioni di impiego poco gratificanti – incentivano gli inoccupati a star fermi nella loro condizione di ‘scoraggiati’ (o di lavoratori a nero). In più, poiché la dinamica della produttività del lavoro dipende in massima misura dall’avanzamento tecnico, le politiche di precarizzazione del lavoro – disincentivandolo – hanno l’ulteriore effetto negativo di comprimere il tasso di crescita.


P.S. L’infelice dichiarazione del Presidente Monti, sulla “monotonia” del posto fisso, si inquadra nella fase 2 dell’agire comunicativo di questo Esecutivo: anche i tecnici parlano. E, presa quella dichiarazione alla lettera, parlano con poca cognizione di causa (se non provocatoriamente). Innanzitutto la monotonia non è una categoria economica, il prof. Monti è un economista, è un liberale, e, per un liberale, la non-monotonia non può essere imposta ope legis. In secondo luogo, e soprattutto, chi percepisce il proprio impiego (a tempo indeterminato) monotono, può licenziarsi e cercarne un altro per lui più gratificante. Dopo tutto, per un liberale il fatto che ognuno sia il miglior giudice di sé stesso è un’acquisizione non discutibile.