15 ottobre: forme e sostanza

Sugli esiti dell'imponente corteo di sabato scorso a Roma si sono già prodotti fiumi di inchiostro e di caratteri digitali.
Non essendo intenzione di questo scritto aggiungersi alle annosa, eterna e politicamente idiota dicotomia “violenzanon violenza”, diciamo fin da subito che la violenza è il fondamento irrinunciabile del dominio capitalistico, tanto più nell'epoca della sua crisi sistemica, e con essa milioni di proletari del nostro paese fanno i conti ogni giorno mediante soprusi, ricatti, negazione dei più elementari diritti, forme brutali di sfruttamento, saccheggio dell'ambiente, delle risorse e dei beni comuni, massacro di intere popolazioni in nome del profitto delle multinazionali imperialiste.
E' violenza terroristica costringere un'intera generazione a lavorare senza alcun diritto e tutela, con turni, ritmi ed orari schiavistici, e paghe di 56 euro l'ora che a fine mese servono a malapena a pagare un affitto o un mutuo da rapina; è violenza terroristica l'imposizione all'intero mondo del lavoro dipendente del “modelloMarchionne”, agitando lo spauracchio della disoccupazione e dellosmantellamento di interi impianti produttivi; è violenza terroristica quella di chi impone tagli ai servizi sociali al fine di salvare la rendita finanziaria; è violenza terroristica continuare a far pagare la crisi a chi già da trent'anni paga i costi delle ristrutturazioni padronali e si è visto ridurre all'osso il potere d'acquisto del proprio salario o della propria pensione; è violenza terrorista la continua ostentazione di sfarzo e ricchezza nelle mani di un manipolo di parassiti mentre la gran parte del paese è in ginocchio. Tra questi terroristi e coloro che sono stati bollati come tali a seguito di una giornata di rabbia e di resistenza per le strade di Roma, non esitiamo neanche un attimo ad affermare che siamo e saremo sempre dalla parte dei secondi. Parafrasando le parole pronunciate da Claudio Scajola (un nome quanto mai sulla breccia negli ultimi giorni) a luglio 2001 nelle vesti di ministro degli interni in difesa delle sue “forze dell'ordine” protagoniste della mattanza di Genova: se nel corso della giornata ci sono stati degli eccessi non c'è dubbio che essi siano da condannare, ma ciò non lede minimamente il nostro appoggio incondizionato alle migliaia di manifestanti che a San Giovanni e nelle vie di Roma hanno difeso il corteo, reagendo e resistendo per ore ai caroselli e alle cariche indiscriminate degli uomini armati al servizio di Maroni.
D'altronde, il concetto stesso di “eccesso” risponde per sua stessa natura a giudizi di valore del tutto soggettivi: la gran parte dei banditi che siedono in parlamento reputano normale che milioni di giovani lavoratori campino con 600/700 euro al mese o che migliaia di operai si ritrovino da un giorno all'altro disoccupati, ma considerano un “eccesso” anche un semplice e democratico sciopero a difesa dei posti di lavoro (basterebbe pensare al killeraggio scatenato contro la Fiom negli ultimi mesi); la piccola e media borghesia radicalchic, “indignata” contro gli effetti della crisi ma incapace di andare oltre il mugugno e prigioniera dell'intramontabile mito della “democrazia” e delle “tutele costituzionali”, ritiene eccessivo e deprecabile anche il solo scendere in piazza con un servizio d'ordine e con mezzi di autodifesa; per ciò che ci riguarda, ritenendo del tutto legittima la rabbia espressa in piazza, ci limitiamo a constatare che tra l'incendio di un SUV e il rogo di un utilitaria passa la linea che separa la lotta di classe dal ribellismo nichilista.
Al tempo stesso, chiunque abbia visto il corteo giunto a San Giovanni coi propri occhi e non per il racconto fattone da stampa, televisioni o da qualche funzionario o portaborse del politico di turno, sa benissimo quanto abissale sia stata la differenza (qualitativa, quantitativa e quindi politica) tra le azioni dimostrative isolate condotte lungo il corteo da un numero estremamente esiguo di manifestanti, e la risposta diffusa e di massa con la quale in migliaia (ivi compresi centinaia di “pacifici” che non appartenevano allo spezzone di testa) hanno respinto l'attacco delle forze dell'ordine a San Giovanni e nelle zone limitrofe. Chi parla di esigua minoranza isolata dal corteo o è in malafede o crede alla Befana.
Del resto, quella del 15 ottobre era una storia già scritta: a chi dall'interno del movimento blatera su presunte coperture e regie politiche degli scontri ad opera di aree politiche o centri sociali "non allineati", verrebbe da rispondere che se proprio si vuol parlare di responsabilità politiche, esse ricadono interamente su chi ha per mesi ha lavorato a depotenziare la portata conflittuale della manifestazione romana, rigettando le innumerevoli proposte, provenienti dalle aree di movimento più disparate, di portare il corteo nei pressi della sua naturale controparte, assediando i fortini del potere.
Il malcelato proposito di trasformare la data del 15 in una innocua passerella, perseguito in queste settimane da un manipolo di sciacalli (questi si davvero estranei al movimento) che si sono infiltrati nella protesta con l'unico fine di traghettarla verso i sempre più maleodoranti lidi istituzionali, ha prodotto il risultato opposto; l'ipocrita e meschino tentativo di usare la protesta per parassitare qualche voto in più per SeL alle prossime tornate elettorali e per “lanciare” Vendola e compagnia come i nuovi salvatori della patria a capo di un Nuovo Ulivo, ha scatenato una sana e sacrosanta ondata di rigetto la quale, in mancanza di stabili punti di riferimento autonomi e di classe e in assenza di una progettualità politica di superamento dell'esistente, non poteva che manifestarsi nelle modalità a cui abbiamo assistito.
Mentre l'esercito della propaganda asservita ai padroni (di ogni colore e schieramento) sin dal pomeriggio di sabato ha sguinzagliato con forza inaudita il suo esercito di pennivendoli, sociologi e opinionisti prezzolati col solito corollario di scoop e dissertazioni di sociologia spicciola su violenza, non violenza, black block, teppismo cieco, gioventù disadattata, pericoli terroristi e via delirando, il tutto con l'evidente fine di distogliere l'attenzione dagli effetti catastrofici dalle ricette lacrime e sangue imposte da Bankitalia e BCE, per noi, che da inguaribili materialisti leggiamo in questa crisi e nel malcontento che essa produce nient'altro che il segno inequivocabile della ripresa dello scontro di classe, il significato e con esso la sostanza politica derivante dalla giornata del 15 ottobre è molto semplice: a Piazza San Giovanni migliaia di proletari hanno espresso la propria rabbia non solo contro un governo e uno stato che hanno rapinato loro il diritto al lavoro, alla casa e alla vita, ma anche contro chi da un lato dimostra quotidianamente il proprio asservimento a quel sistema che ha generato la crisi, dall'altro vorrebbe lucrare sul malcontento di chi quella crisi la subisce per i propri squallidi tornaconti di poltrona.
D'altra parte, è evidente che un tale tentativo di snaturare la giornata del 15 non avrebbe mai potuto attecchire senza una sponda significativa interna al movimento. Si tratta di una storia oramai trita e ritrita: gran parte della nomenclatura di movimento, della lobby degli “incendiari a chiacchiere”, dei ribelli di professione, dei tifosi delle rivolte lontane (e più sono lontane, meglio è per loro...), non appena il conflitto inizia a farsi reale e non solo virtuale, diretto e non mediato, autentico e non telecomandato, né tantomeno manipolabile a fini elettorali, passano in un batter d'occhio sull'altra sponda, alimentando il teorema della divisione tra “buoni” e “cattivi” e invocando rese dei conti tra
pacifici e “violenti”. Da questo punto di vista, non vi è nulla di nuovo sotto il sole, trattandosi dello stesso canovaccio che ha portato al rapido riflusso del movimento noglobal e che solo un anno fa portò il movimento NoGelmini a passare nel giro di una settimana dalla straordinaria rivolta del 14 dicembre alla pagliacciata delle delegazioni al Quirinale. L'unica novità è rappresentata dai nuovi proseliti che nelle ultime settimane si sono accodati al “partito dei buoni”: su tutti la Confederazione Cobas, la quale, seppur con un atteggiamento ondivago e contraddittorio finora aveva sempre avuto il merito di sottrarsi alle isterie paranoiche “antiblack block” e alle logiche da caccia alle streghe, e che invece il 15 si è contraddistinta per una condotta non dissimile da quella che da sempre essi imputano a CgilCislUil, prima schierandosi contro l'ipotesi di portare il corteo sotto ai palazzi del potere, poi sparando nel mucchio e criminalizzando indistintamente chiunque avesse osato resistere attivamente.
Non ci interessa sapere se effettivamente ci sia stato un baratto tra SeL e buona parte del Coordinamento 15 ottobre, né ci interessa conoscere l'entità della contropartita (che siano seggi al parlamento, posti da consigliere, da portaborse o anche solo la garanzia di coprire le spese di affitto di questa o quella sede) poiché per noi il dato è politico: l'atteggiamento di fronte ai fatti del 15 ottobre segna un'ulteriore e ancor più profondo spartiacque tra l'anticapitalismo e l'opportunismo, tra una pratica autonoma e di classe e le chiacchiere del riformismo in tutte le sue vesti e varianti.
Detto questo, ci pare altrettanto evidente che la trappola più insidiosa per il movimento anticapitalista sia quella di farsi schiacciare e mettere all'angolo da questa nuova strategia della tensione. Il disegno che è in atto ci appare chiaro: preparare il terreno ad una nuova svolta repressiva e reazionaria, i cui primi effetti si sostanziano nell'ondata di perquisizioni condotte in tutta Italia contro compagni delle aree politiche più disparate. La sortita sulla “nuova legge Reale”, non a caso ad opera di quel poliziotto campione dell'antiberlusconismo che risponde al nome di Antonio Di Pietro e fatta propria dai settori berlusconiani più propensi a un ipotesi di governo di solidarietà nazionale, è la riprova di come siano già in atto le grandi manovre tese a un ulteriore rafforzamento dei poteri dello stato borghese in chiave autoritaria.
In quest'ottica, questi fatti non possono esimerci dal chiedere il conto a chi, anche all'interno del movimento, in questi anni ha presentato l'antiberlusconismo, e quindi il dipietrismo, come una strada utile, se non addirittura imprescindibile, arrivando in qualche caso al punto da stringere con l'IdV accordi elettorali...
Venendo a noi, sarebbe del tutto semplicistico e fuorviante limitarsi ad enfatizzare la portata del 15 ottobre, senza al contempo interrogarsi sui limiti strutturali che caratterizzano non solo questo movimento in quanto tale, ma anche e soprattutto le capacità di intervento della sinistra di classe al suo interno.
In primo luogo pensiamo che alla strategia di isolamento messa in atto in questi giorni da parte dello stato e dei settori del ad esso subalterni non si possa rispondere, come fatto sinora, in ordine sparso o illudendosi di poter fare ciascuno da sè: se l'attacco è concentrico, la risposta non può venire dalla semplice riproposizione di un unità fittizia basata solo sul no alla repressione.
In secondo luogo, lo stesso corteo del 15 ha evidenziato una permanente rissosità all'interno dell'area di classe. Una rissosità che poggia su diffidenze reciproche e tatticismi esasperati, e che risulta sempre più appannaggio del vecchio ceto politico e sempre meno comprensibile da coloro che si affacciano alla lotta liberi dal pesante fardello dei decenni precedenti. Da questo punto di vista è necessario riaffermare la centralità della politica rispetto alle logiche di parrocchia.
Se il sistema del profitto mostra sempre più di essere alle corde, è giunta l'ora che i compagni hanno davvero a cuore le sorti del movimento e la sua autonomia dalle influenze riformiste si attrezzino con metodo e costanza per offrire uno strumento politico di dimensione almeno nazionale capace non solo di rappresentare l'alternativa in piazza, ma anche di prospettare una via d'uscita credibile dall'attuale stato di cose. Ad onta di chi vorrebbe usare i fatti del 15 per sferrare un colpo mortale alle mobilitazioni, già in questi giorni le lotte stanno riprendendo il loro corso, come dimostra lo sciopero dei metalmeccanici e la manifestazione dei NoTav in Val di Susa del 23 ottobre.
Per difendere e rilanciare le lotte è oramai imprescindibile che tutti coloro che si riconoscono nell'anticapitalismo si adoperino per dar vita a un coordinamento nazionale.

 L'intervento del Laboratorio Politico Iskra