Minacce, disciplina e indipendenza


 di Maurizio Donato 11 luglio 2011
La fase attuale del versante economico della guerra di classe si concretizza in una serie di attacchi speculativi al debito sovrano di diversi paesi dell’Europa mediterranea. Stavolta tocca all’Italia, boccone appetitoso, ma notoriamente ostico. In questo breve saggio vengono dapprima sintetizzati alcuni elementi di giudizio che possiamo ricavare dagli attacchi speculativi scatenati dall’area valutaria dollaro contro gli anelli più deboli dell’area euro, in seguito discussi alcuni temi che stanno alla base della crisi del debito sovrano, per concludere con alcune note sulla situazione italiana.
Nonostante tutte le rassicurazioni di facciata, la crisi economico-finanziaria del capitalismo manifestatasi nell’estate del 2008 sotto forma di crisi da debito privato non solo non è finita, ma è entrata nella sua fase più pericolosa e acuta, dopo che salvataggi per migliaia di miliardi di dollari l’hanno trasformata in crisi da debito pubblico, particolarmente evidente nell’area valutaria euro in cui diversi paesi di media importanza rischiano di entrare o sono già entrati in una inedita fase di fallimento non dichiarato.
 La forma della crisi è finanziaria perché  finanziaria è la forma prevalente del capitalismo contemporaneo, ma la sua sostanza e dunque le sue radici risiedono all’interno dei meccanismi di produzione, e più specificamente nella crisi di profittabilità che si esprime nella caduta tendenziale del saggio di profitto.
 La crisi economica si manifesta contemporaneamente come crisi delle teorie e dell’ideologia che le accompagna, e questo vale sia per le sue varianti cosiddette “neo-liberiste” che per quelle “interventiste/keynesiane”. Semplicemente le stanno provando tutte, in democratica alternanza, e non ne funziona nessuna, dall'aumento della spesa pubblica alla sua riduzione, dai tassi di interesse portati a zero all'espansione monetaria senza limiti (quantitative easing). Gli interventi di politica economica non funzionano, o quantomeno non riescono a risolvere la crisi non perché vengano commessi “errori” da parte di chi li propone o di chi tali misure applica, non funzionano semplicemente perché non possono funzionare: la crisi è strutturale e sistemica.
  La politica, le istituzioni politiche del capitalismo, sono completamente asservite alla logica dei monopoli finanziari; tremano nei confronti di ogni giudizio dei “mercati” e non provano nemmeno più a fingere una indipendenza di cui non resta alcuna traccia, seppellendo ogni parvenza di democrazia nei nuovi istituti della “governance” particolarmente in Europa. Se resta vero che non sono e non sarebbero possibili e credibili manovre di “fuoriuscita dalla crisi”, cionondimeno non stiamo assistendo ad alcun “braccio di ferro” tra politica e mercati, che anzi appaiono sempre più intrecciate come la azzeccata espressione in voga negli Usa di “porte girevoli” lascia intendere a proposito di soggetti che occupano indifferentemente posti chiave in importanti istituzioni finanziarie o politiche.
 A essere sotto attacco è adesso il residuo “welfare State” i cui compiti e la cui estensione sono costretti a crescere dalla dinamica della crisi di profittabilità non meno che dalla piega presa dalla curva demografica nei diversi paesi protagonisti del capitalismo. A un bilancio pubblico che tendenzialmente avrebbe e ha bisogno di maggior spazio e maggior risorse a disposizione per i soggetti che vivono di lavoro fa da contraltare la disperata fame di profitti del capitale privato per il quale il settore pubblico rappresenta la comoda e lucrosa alternativa a una concorrenza che taglia fuori dal mercato molti soggetti e settori.
 La competizione tra capitali a livello internazionale, particolarmente nella forma attuale di conflitti tra aree valutarie, si riflette nella sempre più spinta tendenza alla guerra vera e propria, per ora contro soggetti restii a subordinarsi completamente alla logica dell’imperialismo, anche se non si possono escludere scenari più apertamente conflittuali all’interno delle stesse metropoli imperialiste. 


La Germania, l’euro e i rischi di fallimento
Quando si trattò per convincere la Germania ad accettare l’introduzione della moneta unica europea, sul piatto della bilancia fu fatta pesare una opportunità irripetibilmente ghiotta: in cambio della rinuncia al marco, gli altri Stati europei (e gli Usa) avrebbero consentito l’annessione dell’ex Repubblica Democratica Tedesca. La Germania colse la vantaggiosità dello scambio e nacque l’euro. Le decisioni per verificare se quella dell’euro fosse o meno un’area valutaria ottimale  furono basate su indicatori economici nominali, come il rapporto deficit/Pil e quello debito/Pil, e le adesioni dei vari paesi furono decise sulla base del criterio della convergenza delle economie nazionali a tali indicatori nominali. Non mancarono, da subito, economisti e studiosi che misero in discussione la validità di tali presupposti[2], ma vinse su tali preoccupazioni di natura tecnica la considerazione politica che il processo di integrazione europea si sarebbe rafforzato enormemente se, per la prima volta nella storia, molti tra gli Stati più importanti dell’Europa avessero acconsentito a una rinuncia volontaria a una parte considerevole della propria sovranità in cambio dei vantaggi assicurati dall’avere un’unica moneta sovranazionale.
 In quegli anni una diversa preoccupazione politica veniva fatta presente da ambienti meno inclini alla deferenza nei confronti del potere costituito: una unificazione monetaria senza nemmeno i classici meccanismi della rappresentanza politico borghese si sarebbe risolta in nient’altro che in un abnorme rafforzamento del potere delle banche e delle istituzioni finanziarie in generale, con una trasformazione della costituzione materiale europea nella direzione di una governance in cui il potere della Banca centrale europea, della Commissione europea e del Consiglio è totalmente privo di contrappesi e di una seppur minima possibilità di controllo da parte degli abitanti dell’Europa.
L’euro nasce così portandosi appresso un duplice ordine di problemi: dal punto di vista economico, l’abbandono della possibilità di politiche monetarie nazionali avrebbe reso i paesi europei deboli più indifesi nei confronti di shocks asimmetrici possibili in assenza di una convergenza basata su indicatori economici reali (nel senso di non nominali); dal punto di vista politico, la rinuncia da parte dei governi nazionali a una quota di sovranità  non ne prevedeva il trasferimento a una istituzione analoga – un governo europeo, com’è noto non esiste – ma a istituzioni totalmente sganciate da qualsiasi meccanismo di rappresentanza e perciò, nel senso pieno del termine, irresponsabili per quanto riguarda le proprie decisioni.
 Nell’inverno 2010-11, anche e soprattutto a causa delle straordinarie manovre di salvataggio pubblico delle banche coinvolte nell’ondata di fallimenti seguita alla bolla immobiliare americana, i problemi dell’area euro sono esplosi, portando alla possibile deflagrazione dell’intero sistema monetario europeo.
 Se questo vale per le cause immediate, la forma finanziaria con cui si manifesta la crisi dei debiti sovrani dell’area euro, le sue radici remote vanno ricercate più in profondità, capovolgendo il discorso di chi vede nelle difficoltà dell’economia reale una conseguenza di quanto accade sul piano finanziario. La prevalenza della forma finanziario - speculativa del capitalismo non è un accidente della storia, ma il risultato dell’impossibilità di una crescita economica reale generalizzata trainata dai profitti in presenza di un livello di innovazioni tecnologiche che, aumentando a dismisura la forza produttiva del lavoro, consentono un abbassamento senza precedenti del tempo di lavoro socialmente medio e di conseguenza del valore delle merci prodotte, oltre a provocare un aumento ugualmente enorme dell’esercito industriale di riserva. Che il saggio medio di profitto si abbassi non impedisce, per il momento, che aumenti la massa dei profitti, producendo una situazione in cui  una pletora di capitali, di varia formazione, vaga per il mercato mondiale alla ricerca di opportunità di profitto di qualsiasi natura.
 Per avere una idea dell’entità dei capitali in circolazione, facciamo riferimento a una intervista pubblicata ai primi di dicembre del 2010 da Il Sole 24 ore, in cui il capo della JP Morgan, in occasione dell’apertura di una nuova sede in Italia, dichiarava: “sui nostri trading desk intermediamo ogni giorno circa 2.500mld$..”. Un paio di settimane più tardi, è il  New York Times  a riferire che la statunitense Commodity Futures Trading Commission è praticamente convinta che, nei loro incontri mensili, i rappresentanti delle nove più potenti istituzioni finanziarie private[3] non si limitino a scambiarsi informazioni, ma nei fatti “contrasta(no) ogni sforzo per rendere trasparenti i prezzi e le commissioni”.  Ora, se una sola di queste nove banche dichiara di muovere 2.500mld$ al giorno e tenendo a mente che la commissione per un contratto di CDS (Credit Default Swap) può arrivare fino a 25.000$, possiamo avere una idea (giusto una pallida idea, visto il set di informazioni limitato di cui disponiamo) dello scenario in cui le dinamiche sistemiche del capitale prendono corpo. In pratica, ogni giorno, un ristretto e potentissimo gruppo di banchieri per lo più occidentali  sposta capitali per migliaia di miliardi di dollari alla ricerca di qualche (qualunque) opportunità di profitto. Tanto per avere un riferimento all’economia reale, se anche fossero “solo” 2.000mld$ al giorno, per trecento giorni di mercato fanno 600.000mld$ l’anno, quando il PIL mondiale è – all’incirca – 60.000mld$ l’anno. Per fare un esempio più vicino a noi, la sola JP Morgan sposta in un giorno l’equivalente del PIL italiano di un anno.
Su come si sia formata questa pletora di capitale fittizio e che relazione esiste tra la prevalenza della forma speculativa del capitale e la dinamica della caduta tendenziale del saggio di profitto, rimando a quanto scrivono su questi temi da anni, seppure con sottolineature diverse, autori come Gianfranco Pala, Mino Carchedi, Vladimiro Giacché, Paolo Giussani, Antonio Pagliarone, Luciano Vasapollo.  In questo contesto non ripeto e non riprendo questo discorso perché mi interessa piuttosto mettere l’accento sulla relazione che esiste tra eccesso di capitale finanziario e nuova bolla dei debiti pubblici, per cercare di mostrare come alla base di questa nuova ondata speculativa che si sta scatenando su alcuni paesi dell’area euro ci siano – indubbiamente – condizioni di finanza pubblica che rendono possibili gli attacchi speculativi (l’offerta di titoli), ma a condurre le danze sono – come sempre – quelle istituzioni finanziarie che ogni giorno devono decidere come e dove investire una pletora di capitale fittizio il cui destino (la svalutazione) è il vero problema della crisi, non meno che il suo risultato.

La nuova bolla dei debiti sovrani rivela in modo straordinariamente chiaro l’interdipendenza che esiste tra debiti pubblici e bilanci delle banche, rendendo la questione del rischio fallimento, della sua “assicurazione” e dei cosiddetti salvataggi pubblici un autentico paradosso. Gli Stati moderni si indebitano, chi più chi meno, tutti, e particolarmente quelli ricchi e occidentali; fino a prima del 2007 l’Italia (a parte il Giappone) sembrava un caso limite, ma adesso, a tre anni dall’inizio ufficiale della nuova grande depressione, quei livelli di rapporto debito/Pil che costituivano un’anomalia sono la norma (e tenderanno a crescere ancora se nel frattempo i tassi di interesse aumentano) per la maggioranza dei paesi OCSE: una bonanza per le banche, di nuovo soprattutto occidentali, che hanno sempre più nei loro portafogli pacchetti cospicui di debiti pubblici su cui possono scegliere di puntare a proprio piacimento. Il meccanismo, a parte gli strumenti più o meno sofisticati di cui si serve, è nella sua sostanza fin troppo semplice: una volta scelta la “preda” (e c’è solo l’imbarazzo della scelta) gli hedge funds, i fondi pensione, quelli di investimento e più in generale le grandi istituzioni finanziarie internazionali cominciano a fare pressione, magari attraverso le agenzie di rating che controllano, sul settore pubblico del paese x. La spesa pubblica è troppo alta, il rapporto deficit/Pil non è ai livelli standard, la produttività ristagna: l’elenco è praticamente infinito, dal momento che nessun paese (a parte pochissime eccezioni che non cambiano il quadro di riferimento) può vantare contemporaneamente tutti i fondamentali a posto. Qual è il paese che cresce a ritmi sostenibili, senza debito pubblico, con bassa inflazione, bassa disoccupazione, equilibrio dei conti con l’estero, alta produttività? Nessuno, ovviamente, ciascun paese ha i suoi problemi, grandi o piccoli a seconda della sua dimensione e della sua importanza sullo scenario internazionale. Ma quando, con l’aiuto dei mezzi di comunicazione di massa, la speculazione finanziaria comincia a mettere sotto pressione le obbligazioni pubbliche del paese x, il gioco è fatto: nella peggiore delle ipotesi (in realtà vantaggiosissima per la speculazione) il prezzo di queste obbligazioni si abbasserà e i suoi rendimenti aumenteranno; nella migliore  si inizia a evocare lo spettro del default, termine che evoca scenari giustamente preoccupanti se non apocalittici: il fallimento.

In realtà, a ben vedere, la minaccia del fallimento sovrano costituisce un classico caso di minaccia non credibile (in termini di teoria dei giochi) dal momento che a rimetterci maggiormente in caso di default dichiarato sarebbero proprio le banche e più in generale i  creditori. In questo senso la minaccia del fallimento costituisce l’equivalente per il settore pubblico della minaccia di delocalizzazione da parte del capitale privato: in ogni caso, agisce come dispositivo disciplinare che abbassa le pretese dei soggetti coinvolti, intimorisce, ma sortisce l’effetto voluto solo a patto che le istituzioni politiche del capitalismo, governi, parlamenti e tutte le agenzie della governance svolgano il loro ruolo.

In questa particolare situazione, cioè in presenza di una chiara minaccia di fallimento che, a partire dai debiti sovrani di alcuni paesi dell’area euro-mediterranea, riguarderebbe chiaramente la stessa esistenza dell’area valutaria euro, come si sono comportate le istituzioni-chiave della governance: Banca centrale europea, Commissione, Consiglio? Dopo non poche discussioni, tentennamenti e – non sembra impossibile – dopo aver bruciato anche a causa della sua riluttanza addirittura il direttore generale del Fondo monetario internazionale, gli euro dittatori hanno deciso di imitare i loro colleghi nordamericani, vale a dire salvataggi “preventivi” e dichiaratamente insufficienti, iniezione di fondi pubblici, istituzione di veri e propri Fondi di “salvataggio”, esattamente come è successo nell’area dollaro, a partire dalla trasformazione  del ruolo istituzionale delle Banche centrali, acconsentendo a che siano esse a comprare i titoli pubblici dei paesi in difficoltà, alla faccia della loro ”indipendenza”.

Vale la pena ricordare, a questo proposito, il giudizio pressoché unanime che associa la “svolta” (s’intende virtuosa) della politica monetaria italiana al “divorzio” tra Banca d’Italia e Tesoro; a partire dal 1979 la Banca centrale non è stata più “obbligata” ad acquistare i titoli pubblici che il governo non fosse riuscito a piazzare sui mercati. A trent’anni di distanza, l’indipendenza di due tra le più importanti banche centrali del mondo, che rappresentano l’area valutaria dollaro e l’area valutaria euro, viene clamorosamente negata e non per sostenere politiche di piena occupazione, ma per sostenere i bilanci traballanti o semi-fallimentari delle banche creditrici dei governi occidentali.

La fine dell’indipendenza delle banche centrali, con l’obbligo (o la dichiarata volontà, che fa lo stesso) di acquistare titoli del debito pubblico, non si accompagna però con la fine della loro “irresponsabilità”. Il problema della governance riappare in tutta la sua importanza: dalla Bce alla Commissione europea, al Consiglio, fino ad agenzie costituite ad hoc, comitati, strutture semi-pubbliche (cioè semi-private) dai nomi sempre più fantasiosi, organismi che vedono aumentare il proprio ruolo e dunque il proprio peso politico sganciando sempre più il potere da qualsiasi meccanismo di rappresentanza, a cominciare da quello del voto. Il superamento della tradizionale democrazia liberale borghese che vedeva negli istituti come i Parlamenti, le assemblee elettive, il proprio fulcro – beninteso, dal punto di vista formale – è oramai compiuto proprio a partire dalla vecchia Europa. Chi decide, chi comanda, non solo nella decisiva sfera economica come accade per le imprese e le banche, ma anche dal punto di vista politico, è sganciato da qualsiasi meccanismo elettorale, è semplicemente nominato, e non deve rispondere del suo operato a cittadini ritornati sudditi, ma unicamente ai vari consigli, boards, che hanno espropriato anche formalmente  istituzioni non più funzionali alla gestione dello stato d’emergenza permanente.

E’ questo lo scenario in cui la cancelliera tedesca Merkel ha espresso il suo punto di vista “non ortodosso” e che ha fatto gridare allo scandalo in tanti: basta con i salvataggi pubblici – ha detto -  da adesso in poi (dal 2013, così si è deciso) è bene che anche gli investitori privati si accollino la loro parte di rischio.  Ma che cosa è stato imputato come errore “di comunicazione” alla leader della Germania? Sarà per caso lo stesso errore “di comunicazione” di cui si è reso responsabile proprio l’ex capo di Stato tedesco a proposito della guerra? In altre parole, si sostiene: hai ragione, ma non si dice; e non si dice altrimenti i mercati.. Per quello che mi sembra di capire, il vero scandalo – nel senso della pietra di inciampo -  non è costituito dalla decisione politica di lasciare anche alle banche la possibilità di fallire: è certamente grave che una banca fallisca, ma lo è infinitamente di più se fallisce uno Stato; la decisione sbagliata, ma sarebbe più appropriato dire, il vero e proprio regalo fatto dall’Unione europea alle banche è invece il Fondo di “salvataggio”, intanto in vigore, e che cambierà nome nel 2013.

Gli economisti teorici conoscono da anni che cosa si intende per “rischio morale”: la possibilità che un soggetto assuma comportamenti non efficienti se assicurato rispetto al rischio che dai suoi comportamenti potrebbe derivare. Quando istituisci un Fondo di salvataggio del valore di 750 miliardi e dichiari che ne spendi un centinaio per la Grecia, poi una ottantina per l’Irlanda e contemporaneamente annunci che gli investitori privati potrebbero essere chiamati a rimetterci in proprio, ma dal 2013, stai dicendo agli speculatori di mezzo mondo: affrettatevi, signore e signori, abbiamo a vostra disposizione qualcosa come 500 miliardi se volete speculare sui debiti pubblici di qualche paese europeo, ma scegliete in fretta su chi volete puntare: Portogallo, Spagna, Italia? Avete pochi mesi, e poi (poi..) la bonanza finisce. Ecco lo scandalo, ecco il rischio mor(t)ale da agitare contro i governi dei paesi europei perché taglino il più possibile le spese sociali, altrimenti falliscono. Loro, si intende, ché le banche le assicuriamo noi. 

 Ma che cosa succede(rebbe) in caso di un fallimento sovrano? Che tipo di priorità verrebbe assegnata ai creditori privati, cioè ai possessori di titoli pubblici con un valore facciale diverso da quello reale? Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, il fallimento di uno Stato, mentre va spiegato meglio in che senso è possibile parlare di fallimento, ha costituito un evento tutt’altro che infrequente nella storia economica. Senza approfondire temi che per la loro complessità meritano ben altro trattamento, va almeno ricordato che, dal punto di vista formale, non esiste al momento alcuna possibilità giuridica che ai creditori privati del debito pubblico venga assegnata una “priorità”, che invece spetterebbe senz’altro a ben altri soggetti, a cominciare dai dipendenti pubblici, e più in generale ai capitoli “normali” della spesa pubblica. Certo, sarebbe quanto meno ingenuo riporre fiducia nei meccanismi formali che invece hanno ben altra forza di legge per quanto riguarda i fallimenti delle imprese: è evidente che, in caso di fallimenti sovrani così come in “tempi normali”, quello che decide in ultima istanza è la materialità dei rapporti di forza, ma in ogni caso va ribadito che, in assenza di forzature o innovazioni legislative sempre possibili in questo come in altri casi, a tutt’oggi nell’eventualità di una dichiarata impossibilità (o non volontà) di rimborso dell’intero valore del debito pubblico da parte di uno Stato sovrano, quello che succede (il caso dell’Argentina è da questo punto di vista esemplare) ai possessori delle obbligazioni è che questi ultimi dovranno rinegoziare con il governo in questione i termini del contratto, dai rendimenti alla maturità dei titoli. Questo per dire che, quando si agita lo spauracchio del possibile fallimento di uno Stato sovrano, al di là della evidente indesiderabilità di un esito del genere per qualsiasi paese europeo o non, quello che si intende scongiurare è che le banche detentrici di titoli non abbiano a soffrire alcuna perdita, proprio perché si è ben consci che, una volta che il default fosse stato dichiarato, non esistono dispositivi legislativi tali da assicurare automaticamente priorità ai creditori che dovrebbero semplicemente aspettare, e negoziare.

Infine, l’Italia. Il 13 aprile il governo  ha presentato il Documento economico finanziario (DEF) che comprende l’indicazione del programma di politica economico-fiscale dell’esecutivo da adesso alla fine della legislatura. Al primo posto tra gli impegni del governo c’è la costituzionalizzazione del vincolo di bilancio, che rappresenta l’adeguamento dello Stato italiano al modello di governance imposto dall’Unione Europea. Non ritenendo sufficiente l’impegno politico a non sforare i limiti del Patto di stabilità e crescita, i paesi dell’UE dovranno nei prossimi anni rendere ancora più stringente il vincolo scrivendo nella Costituzione il proprio impegno al pareggio di bilancio e sancendo in questo modo la fine definitiva della sovranità nazionale nella gestione delle politiche di bilancio che vengono in questo modo indissolubilmente legate alle decisioni della Banca centrale europea.
Il pareggio di bilancio nei conti pubblici italiani è previsto per il 2014 e sarà raggiunto se verranno rispettate le previsioni di crescita, spesa ed entrate indicate nel piano, e se funzionerà la manovra di (forse) 40 miliardi di euro, spalmata in  tranches, su cui voterà il Parlamento italiano.
C’è da osservare che già con il DPEF del 2008 l’allora ministro dell’economia aveva previsto il pareggio di bilancio nel 2011; per amore della verità va subito aggiunto che anche Tommaso Padoa Schioppa lo aveva indicato come obiettivo nei  programmi di stabilità redatti durante il governo Prodi, il che testimonia una volta di più come sia difficile rintracciare una differenza di obiettivi tra i programmi di governo del centro-destra e del centro-sinistra, almeno per quanto riguarda la sostanza dei riferimenti in economia.
Un importante elemento di analisi è pertanto rappresentato necessariamente dal vincolo europeo di governance: l’obiettivo di raggiungere il pareggio di bilancio nel 2014 non è una scelta autonoma di questo governo, ma – come del resto tutto il DEF – null’altro che l’adeguamento dell’esecutivo nazionale alla decisione  dell’Unione europea che ha deciso l’entrata in vigore, a partire dal 2015, del nuovo Patto di stabilità per cui i paesi europei si impegnano a riduzioni di spese a colpi del 5% l’anno.   

Dal momento che è sempre difficile riuscire a far accettare ai lavoratori la diminuzione di voci collegate direttamente o indirettamente al proprio salario, si comprende il ruolo centrale che assume per la riuscita della manovra la pratica della concertazione. Tale ruolo, e dunque l’importanza della collaborazione dei sindacati per la riuscita del piano, risulta evidente se si pone attenzione alla parte di documentazione del DEF costituita dalla simulazione degli effetti dei provvedimenti di politica economica sulla crescita. In sintesi, il governo lavora su uno scenario  tendenziale che prevede un tasso di crescita medio dell’1,5% nel quadriennio 2012-15; come può crescere (sebbene di poco, e in assenza di ulteriori news di segno negativo) una economia se contemporaneamente effettui tagli al bilancio pubblico per decine di miliardi di euro? La risposta è semplice e ovvia: grazie alla moderazione salariale da un lato, e all’aumento della produttività dall’altro. Quando il Programma nazionale per le riforme parla di “politiche per l’occupazione” vano sarebbe il tentativo di trovare traccia di piani per l’assunzione di migliaia di giovani per politiche di risanamento ambientale; niente del genere: sarà fatto qualcosa (ma che cosa?) per l’emersione del lavoro irregolare, ma la spesa, gli incentivi monetari, saranno tutti e solo – come sempre - per un maggior sostegno al capitale, e non al lavoro. I lavoratori dovranno rinunciare a qualsiasi aumento salariale che non corrisponda a un aumento della produttività e i sindacati dovranno avere un ruolo decisivo in questo scenario. Ma non si tratta solo di salario, sono i diritti dei lavoratori ad essere esplicitamente indicati come obiettivo di una completa riscrittura della legislazione sul lavoro.
Intanto, va sottolineato come  la proroga per gli ammortizzatori sociali in deroga è finanziata solo per il 2011, mentre il DEF riguarda l’orizzonte temporale fino al 2014. E’ un problema serio e urgente, ma il governo non lo affronta: dovrebbe apparire evidente, soprattutto per effetto della crisi, che il sostegno al reddito dei lavoratori rappresentato dalla cassa integrazione è oramai inadeguato sia per entità, sia per durata, che per copertura. Andrebbe aumentato come importo, allungato nei termini, allargato rispetto alla platea dei lavoratori, e invece la proposta di “riforma” va esattamente nel senso opposto e consiste – in generale - in una maggiore condizionalità del sostegno al reddito in rapporto al comportamento del soggetto; in altre parole da ora in avanti il sostegno sarà subordinato all’accettazione da parte dei lavoratori di qualsiasi “offerta” gli verrà rivolta. Per chi non accetta, nessun sostegno: è la logica del ricatto inaugurata dalla FIAT e accettata in pieno dal governo, immaginiamo in “ottima” compagnia.

Nei confronti di un tasso di disoccupazione che, se calcolato correttamente - cioè includendo i lavoratori in cassa integrazione, i precari e i ragazzi che  un lavoro non lo cercano nemmeno più – è ben superiore al 10% (la CGIL lo stima superiore al 13%), la proposta del governo consiste da un lato nel tornare ai vecchi contratti di apprendistato per i giovani, e dall’altro di redigere un nuovo “statuto dei lavori” che evidentemente rappresenta l’approdo di un più generale disegno teso a superare l’intero sistema di relazioni industriali e sindacali non più adeguato alla nuova organizzazione della produzione flessibile fondata sulla precarietà generalizzata. Questo progetto, che riecheggia la proposta francese di contract unique, dovrebbe – nelle intenzioni dei suoi sostenitori -  tradursi in una nuova legislazione del lavoro in cui ci siano meno, cioè pochissimi, diritti universali garantiti per “tutti” e il resto affidato alla contrattazione sindacale, cioè ai rapporti di forza anche in deroga alle norme di legge [cfr DEF2011_PNR, pag. 80].

La proposta  di “contrat unique”,  ripresa in Italia dagli economisti  bocconiani de lavoce.info e commentata da Weltroni come “interessante”, si basa su un principio di una semplicità disarmante: per superare la divisione tra lavoratori occupati a tempo indeterminato e precari, si propone di rendere tutti precari anche per legge; i ragazzi dovrebbero cominciare a lavorare con un periodo di apprendistato  lungo quanto basta ad inculcare la disciplina aziendale e introiettare la ricattabilità, per poi passare gradualmente a una serie di contratti a tempo determinato, in cui i diritti per i lavoratori crescono parallelamente all’allungarsi della durata del contratto (e alla “fidelizzazione” del lavoratore), fino a una ipotetica conclusione che coinciderebbe con l’agognato contratto a tempo indeterminato e dunque a pieni diritti.
Si tratta, come appare evidente, di una sfida importante non solo per il governo (e il padronato, ovviamente), che confida molto su questo progetto per la riuscita del risanamento dei conti pubblici, evidentemente anche per potersi precostituire l’alibi del suo fallimento, ma anche per i movimenti dei lavoratori, e particolarmente per quei soggetti sociali che non intendono farsi ricattare dalla minaccia del fallimento, ma ribadire la propria indipendenza.