UNO “STANDARD RETRIBUTIVO” PER TENERE UNITA L’EUROPA





di Emiliano Brancaccio


La crisi europea non è finita: la divergenza tra i costi del lavoro per unità prodotta sta 
alimentando squilibri potenzialmente letali per l’Unione monetaria. Occorre uno 
“standard retributivo” per ridurre lo sbilanciamento tra paesi in surplus e paesi in 
deficit commerciale. L’interesse generale all’unità europea coincide con gli interessi dei 
lavoratori, siano essi tedeschi, italiani o greci.
Sembrano lontani i tempi in cui Olivier Blanchard e Francesco Giavazzi  (2002) 
consideravano l’ampliamento degli squilibri commerciali tra paesi europei un sintomo 
virtuoso della maggiore integrazione finanziaria della zona euro. Da qualche anno la loro tesi 
appare superata, e va invece diffondendosi tra gli studiosi una chiave di lettura molto meno 
rassicurante  degli sbilanciamenti nel commercio intra-europeo. Stando a questa 
interpretazione alternativa la crisi dell’unità europea non può banalmente derivare da finanze 
pubbliche fuori controllo ma sembra piuttosto essere associata  a un problema di 
indebitamento complessivo, sia pubblico che privato, e in particolare a uno squilibrio nei 
rapporti di debito e credito tra i paesi membri dell’Unione. Più precisamente, si ritiene che la 
crisi sia alimentata da una  profonda asimmetria tra economie forti ed economie deboli
dell’area,  che determina surplus crescenti soprattutto  per la Germania a fronte di deficit 
commerciali sistematici per i paesi “periferici” dell’Unione. Numerosi analisti iniziano  in 
questo senso a temere che lo squilibrio tra paesi in surplus e paesi in deficit con l’estero possa 
rivelarsi un grave fattore di instabilità e una potenziale minaccia per la tenuta futura 
dell’Unione monetaria.


Persino il Consiglio e la Commissione europea, solitamente riluttanti 
sul tema, hanno iniziato a riconoscere che uno squilibrio eccessivo nei commerci intra-europei
accresce l’instabilità e il rischio di nuove crisi.
Ma quali sono le cause degli squilibri commerciali interni alla zona euro? Per quale 
motivo la Germania continua ad accumulare surplus mentre Grecia, Irlanda, Italia, Portogallo 
e Spagna tendono sistematicamente al deficit nei conti con l’estero? Limitarsi ad affermare
che i paesi “periferici” spendono troppo mentre la Germania spende troppo poco è
tautologico. Più interessante ci sembra la tesi secondo cui gli attuali  scompensi commerciali 
sarebbero almeno in parte da imputare a una divergenza tra i costi del lavoro per unità 
prodotta dei vari paesi dell’Unione. E’ questa una interpretazione di cui si discute da tempo e 
che raccoglie il parere favorevole di svariati esperti. Di recente tuttavia  Charles Wyplosz 
(2011) ha respinto con risolutezza questa spiegazione. L’economista del Graduate Institute di 
Ginevra riconosce che dal 1999 ad oggi  in Germania  i salari sono  cresciuti  pochissimo
rispetto alla produttività, per cui il costo unitario del lavoro si è ridotto e la competitività è 
aumentata  rispetto agli altri paesi. Egli  però aggiunge che il cambiamento relativo dei costi
unitari non ha quasi mai superato i dieci punti percentuali. Data la bassa elasticità delle 2
bilance commerciali ai costi unitari, Wyplosz arriva a concludere che le variazioni di questi 
ultimi sono state troppo modeste per rientrare tra le determinanti principali degli squilibri
intra-europei.
Wyplosz è uno dei massimi esperti in tema di unione monetaria. Le sue conclusioni 
dovrebbero  quindi almeno in parte rassicurarci sulla tenuta  futura  della zona euro. In realtà
esse non appaiono molto convincenti, per almeno due motivi. In primo luogo, se il problema 
consiste nel verificare la robustezza della zona euro di fronte alla eventualità di nuovi attacchi 
speculativi, allora si deve tener presente che gli operatori sui mercati finanziari elaborano le 
loro strategie anche alla luce degli andamenti attesi delle principali variabili economiche. In 
quest’ottica si dovrebbe quindi tener conto non solo degli squilibri commerciali già registrati
ma anche dei fattori che possono concorrere ad accentuarli ulteriormente in futuro. Il grafico 
seguente offre in tal senso alcune indicazioni:




Fonte: Brancaccio (2008) su dati OECD
La figura mostra l’andamento effettivo dei costi monetari del lavoro per unità di prodotto dal 
1999 al 2007, mentre per gli anni successivi descrive la loro proiezione lineare. Dal grafico si 
evince che se le linee di tendenza che hanno caratterizzato il primo decennio di vita della zona 
euro venissero confermate anche in futuro, la divaricazione tra i costi assumerebbe ben presto 
dimensioni eccezionali. In particolare, il costo unitario del lavoro in Germania diminuirebbe 
in termini assoluti a fronte di incrementi estremamente accentuati in Irlanda, Spagna, Italia, 
Grecia e Portogallo. In pochi anni la forbice tra i costi sarebbe dunque tale da generare divari 
di competitività senza precedenti.  Essa potrebbe quindi condurre a quella che Krugman 
(1995)  ha definito una “mezzogiornificazione” delle periferie europee, vale a dire 
desertificazioni produttive e migrazioni di massa dalle aree più deboli dell’Unione. Vi è chi 
reputa questa eventualità una conseguenza logica del processo di centralizzazione dei capitali 
europei  in atto da tempo,  e della connessa tendenza alla “egemonizzazione tedesca”
dell’Europa. Se così fosse si tratterebbe di un processo altamente rischioso, che potrebbe a un 
certo punto pregiudicare la sopravvivenza stessa dell’attuale Unione monetaria. 
Il secondo limite dell’analisi di Wyplosz verte sul fatto che egli esamina le divergenze 
tra i costi unitari guardando soltanto ai  loro effetti sui prezzi  relativi  e quindi sulla 
competitività dei paesi della zona euro. Egli cioè trascura il fatto che i mutamenti nei costi 
monetari unitari possono  avere implicazioni anche sui margini di profitto e quindi sulla 
distribuzione del reddito. Per esempio, se in Germania il costo monetario del lavoro per unità 
prodotta si riduce può accadere che le imprese tedesche decidano di ridurre i prezzi ma può 
anche darsi  che scelgano di aumentare i margini. Ora, eventuali aumenti del margine di 
profitto  modificano la distribuzione del reddito: la quota salari si riduce e la quota profitti 
aumenta. Di conseguenza, poiché la propensione al consumo sui salari è in genere molto più 
alta della propensione al consumo sui profitti,  lo spostamento distributivo a favore di questi ultimi provocherà in Germania un calo della domanda e delle importazioni e quindi un ulteriore aumento del surplus commerciale tedesco. Oltre al consueto effetto che passa per i prezzi e per la  competitività esiste dunque un secondo effetto squilibrante che passa per la distribuzione e la domanda. Wyplosz e in generale gli economisti  mainstream tendono a trascurare questo fenomeno aggiuntivo, eppure esso può risultare più potente di quello tradizionale.
Se dunque la causa degli squilibri intra-europei può essere almeno in parte rintracciata
nella divaricazione tra i costi del lavoro per unità prodotta, si pone il problema di individuare 
un  criterio per  contrastare questa tendenza. Ma quale meccanismo  potrebbe concretamente 
arrestare l’ampliamento della forbice tra i costi? Nelle trattative in corso sulla riforma del 
Patto di stabilità,  alcune forze in seno al Consiglio europeo insistono affinché si affermi 
ancora una volta  l’idea che il mercato, lasciato a sé stesso, sarebbe in grado di correggere 
spontaneamente gli squilibri. Nei documenti preparatori della riforma si trovano infatti varie 
esortazioni, rivolte ai paesi in deficit con l’estero, ad accrescere ulteriormente la flessibilità 
del mercato del lavoro e ad abolire gli ultimi scampoli di indicizzazione dei salari.  In 
sostanza, si vorrebbe che il Consiglio sollecitasse i paesi tendenti al deficit commerciale ad 
abolire i residui lacci normativi e contrattuali che disciplinano i rapporti di lavoro e li 
esortasse per questa via a lanciarsi all’inseguimento della Germania nella corsa al ribasso dei 
costi.  In effetti questa ennesima istigazione al dumping e alla deflazione salariale non 
costituisce una novità. Si tratta di  una politica già ampiamente  sperimentata in passato.  A 
conti fatti, essa non sembra aver minimamente contribuito ad attenuare gli squilibri e questa 
volta potrebbe anche far piombare l’Europa in una nuova recessione.
Un’alternativa alla linea di indirizzo descritta tuttavia esiste. Potremmo definirla 
“standard salariale” o “standard retributivo europeo”.  Lo  “standard” opererebbe su due 
pilastri: 1) Tutti i paesi membri dell’Unione dovrebbero esser tenuti a garantire una crescita 
delle retribuzioni reali almeno uguale alla crescita della produttività del lavoro (la definizione 
di “retribuzioni reali” può essere estesa fino a includere beni e servizi collettivi garantiti dallo 
stato sociale); l’obiettivo è di interrompere la caduta ormai trentennale della quota salari in 
Europa e di eliminare la tendenza recessiva che da essa consegue, vista la maggior 
propensione al consumo dei salari rispetto ai profitti;


2) Al di sopra della crescita minima, lo “standard” legherebbe la crescita delle retribuzioni reali agli andamenti delle bilance commerciali, allo scopo di favorire il riequilibrio tra paesi in surplus e paesi in deficit con l’estero; in particolare, i paesi caratterizzati da surplus commerciale sistematico dovrebbero essere indotti ad accelerare la crescita delle retribuzioni rispetto alla crescita della produttività al fine di contribuire all’assorbimento degli avanzi con l’estero. In sostanza, il primo pilastro dello  “standard” opera in chiave di redistribuzione sociale,  il secondo pilastro agisce sul riequilibrio commerciale, ma entrambi sono orientati al rilancio complessivo della domanda e del reddito europei.
Infine, la cogenza:  i paesi nei  quali gli andamenti del rapporto tra retribuzioni reali e produttività  fossero  divergenti rispetto allo “standard” dovrebbero essere
sottoposti a sanzioni analoghe a quelle previste dai Trattati europei nel caso di deficit pubblici 
“eccessivi”.
Da un punto di vista concettuale la proposta di “standard retributivo”  segue  la 
fondamentale lezione di Keynes secondo cui la crisi può essere scongiurata solo se il peso del 
riequilibrio commerciale viene spostato dalle spalle dei paesi debitori a quelle dei paesi 
creditori, attraverso una espansione della domanda da parte di questi ultimi  anziché una 
contrazione da parte dei primi. La proposta dovrebbe inoltre esser concepita come tassello di
un piano più generale, che miri finalmente all’attivazione di un motore  “interno”  dello 
sviluppo  economico e sociale  europeo. Infine, un  aspetto politicamente interessante dello 
“standard” è che esso rivela che l’interesse generale alla unità europea coincide con gli 
interessi dei lavoratori, siano essi tedeschi, italiani o greci.
Lo “standard” riesce in tal senso a generare una potenziale convergenza  di interessi tra lavoratori appartenenti a paesi diversi, nonostante la divergenza tra i rispettivi costi unitari del lavoro. Per questo motivo potremmo definirlo un esempio concreto e non retorico di internazionalismo del lavoro.


Naturalmente resta tutta da verificare la possibilità che a breve si riescano a smuovere 
le istituzioni dell’Unione nella direzione suggerita dallo “standard”. Un buon avvio potrebbe 
consistere in una ipotesi alternativa di  riforma del Patto di Stabilità da parte dei partiti 
socialisti e delle sinistre europee. Si potrebbero inoltre rimodulare le iniziative sul salario 
minimo già avviate in seno al Parlamento europeo, al fine di renderle conformi alla logica
generale  dello “standard retributivo”. Ad ogni modo quel che più conta, per il momento, è 
diffondere la consapevolezza che l’unità europea è minacciata anche da forze centrifughe che 
stanno ampliando a livelli potenzialmente insostenibili la forbice tra i costi unitari del lavoro. 
La pretesa di contrastare queste forze affidandosi alle consuete ricette liberiste potrebbe 
generare effetti contrari alle attese e danni irreparabili.