Collegato al lavoro, una sintesi ragionata


Smantellamento del contratto nazionale, ricerca esasperata di una maggiore produttività con l'aumento dei ritmi e dei carichi di lavoro, meno sanzioni e controlli per la sicurezza sui luoghi di lavoro: sono questi i fronti caldi aperti dall’ultima offensiva padronale ai diritti dei lavoratori. L'obiettivo strategico è quello di fare ingoiare bocconi sempre più amari utilizzando strumentalmente la crisi economica, i  rischi finanziari a cui l'Italia viene esposta e la tanto proclamata necessità di modernizzare il paese. L’opera di ristrutturazione fatta di tagli al personale, riduzioni in busta paga, peggioramento generale delle condizioni di lavoro, non ha fatto discriminazioni colpendo lavoratori sia privati che pubblici. A partire dal famoso decreto Brunetta per arrivare  ai tagli della manovra straordinaria si è assistito infatti all'attacco più violento degli ultimi trent'anni ai danni del pubblico impiego.  Il tutto facendo leva su una feroce propaganda ideologica tesa denigrare in blocco un'intera categoria. Ma a quelli del settore privato non è andata certo meglio, come testimoniano le milioni di ore di cassa integrazione di questi mesi, l’utilizzo sempre maggiore di contratti precari, la disoccupazione giovanile a livelli record e l’assalto ai diritti minimi come quello allo sciopero o a turni  di lavoro più “umani”.
E  tutto ciò con la complicità dei sindacati confederali neoconcertativi  che in questi mesi, tanto per dirne una, non si sono sognati neanche per un attimo di mettere in discussione l'impianto della riforma della contrattazione collettiva su cui si sta giocando una partita cruciale. Proprio poche settimane fa il rapporto Censis 2010 (non esattamente una statistica creata ad arte dai “fannulloni”) ha confermato le dure conseguenze a cui hanno portato le varie riforme del mercato del lavoro degli ultimi 15 anni:  da un lato sono peggiorate drasticamente le condizioni di chi lavora con un contratto “stabile”, continuamente sotto attacco sia da un punto di vista economico che dei diritti,  dall’altro i giovani lavoratori sono relegati sempre di più nel corto circuito della precarietà, costretti ad essere assunti a pochi mesi/anni, con contratti a termine, a progetto o di collaborazione, con nessuna tutela per malattie, gravidanza, maternità, ferie, turni di lavoro e orari.  L'ultima mannaia in ordine di tempo non è altro che l’ennesima legge antioperaia sul lavoro, la 183/20010, il cosiddetto  Collegato lavoro. Su tutti i media la notizia della sua approvazione è stata quasi completamente oscurata ma c'è davvero poco da prendere sottogamba: si tratta infatti di un'ulteriore tappa in quel percorso che punta dritto allo Statuto dei Lavori che, riprendendo una vecchia idea dell'ex ministro Treu, punta a fare finalmente piazza pulita del tanto vituperato articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori. Andando a scorrere gli articoli di legge non può non saltare all’occhio la linea di continuità esistente tra questo provvedimento e il Pacchetto Treu e la successiva Legge 30. Sono contenute infatti una serie di previsioni tese a rendere le aziende con le mani sempre più libere, a evitargli troppe rogne in termini di contenziosi, ricorsi e cause di lavoro e a operare una sanatoria di fatto rispetto ad alcune irregolarità che costituiscono la prassi quotidiana di tantissime imprese.  Uno delle novità più nefaste dell'intero provvedimento è quella che riguarda l’incentivazione e il rafforzamento della certificazione dei contratti di lavoro  (art.30). Questa è una procedura per  cui il singolo lavoratore e l’impresa sottoscrivono “volontariamente” la validità e la correttezza di legge di un contratto; ovviamente è chiara l’intenzione di implementare uno strumento nato già con la legge 30 che serve esclusivamente per limitare le vertenze e rendere sempre più ardua  l’impugnazione di contratti, con riferimento specifico ai cosiddetti atipici. L’azienda, in tal modo, mette al riparo i contenuti essenziali dell'accordo: la certificazione del contratto infatti si può impugnare davanti alla magistratura solo per motivi formali quali “erronea qualificazione del contratto” oppure “vizi del consenso o di difformità tra il programma negoziale certificato e la sua successiva attuazione”. Ma le conseguenze più devastanti della riforma riguardano con ogni probabilità proprio il processo del lavoro e le norme su conciliazione e arbitrato (art.31). Gli aspetti riveduti in materia sono vari: in primis, adesso il giudice deve sempre tentare la conciliazione, proponendo una soluzione definita “proposta transattiva”, in sostanza chiedendo al lavoratore di rinunciare ad andare avanti nel procedimento. Oltre a questo è possibile per il datore di lavoro far sottoscrivere ai propri dipendenti un documento che  li obbliga, in caso di controversia, a rivolgersi ad un arbitro privato piuttosto che ad un giudice del lavoro.  Tale clausola può essere sottoscritta solo alla fine del periodo di prova o decorsi 30 giorni dall’inizio del rapporto di lavoro ma ciò non elimina il ricatto alla base della sottoscrizione e dell'intera procedura (come si suol dire “o mangi questa minestra o ti butti dalla finestra..”). Proprio per questi motivi il collegato lavoro colpisce in profondità i presupposti stessi del diritto del lavoro come materia giuridica. Tutte le norme sulla certificazione dei contratti e sull'arbitrato infatti trovano fondamento nell'idea che tra datore di lavoro e lavoratore esista lo stesso potere contrattuale, che entrambi cercano l'accordo con lo stesso grado  di libertà e di volontarietà, che l'uno e l'altro insomma si trovano sullo stesso piano. Ma è proprio il riconoscimento di una disparità oggettiva tra i soggetti direttamente coinvolti che contraddistingue il diritto del lavoro dal diritto commerciale ed  è proprio la volontà di rendere il confine tra queste due materie sempre più sfumato il pericolo più grande che ci si para davanti. Un'altra batosta è quella collegata ai nuovi termini di impugnazione di un licenziamento, in particolar modo per quanto riguarda i contratti di lavoro a tempo determinato (art.32): accanto al termine ordinario di 60 giorni viene introdotto infatti un  ulteriore periodo di 270 giorni (che diventano 60 se conciliazione o arbitrato vengono rifiutati) per il deposito del ricorso in tribunale, scaduto il quale l'intera azione diventa inefficace. Ma la cosa più grave è che questa tempistica (che adesso viene applicata anche in caso di “licenziamento verbale”) è estesa a tutti i lavoratori precari, in appalto o interinali, a quelli con contratti a termine, di collaborazione e a progetto. Si capisce bene quanto tale procedura diventi complicata per tutti questi precari che molto spesso, alla scadenza del contratto, sono costretti a trascorrere un periodo “di attesa” (che può anche superare i 60 giorni) nella speranza di essere riassunti dalla stessa azienda, magari nuovamente con un contratto atipico.