L’economia fuorilegge



di Roberta Carlini, da "La rocca di Assisi" e robertacarlini.it


La maggiore società di telecomunicazioni italiana, il principale suo concorrente, la ‘ndrangheta. Gli scandali che sono spuntati prima della primavera nel capitalismo italiano rischiano di essere trascurati, di annacquarsi dentro la più generale e gigantesca questione morale che va dalla politica alle imprese, dai voti di preferenza ai massaggi, dagli appalti del terremoto al roaming telefonico. E come oltre cent’anni fa nello scandalo della Banca Romana, e pochi giorni fa nei salvataggi bancari, forte è il rischio che la stessa estensione della corruzione faccia da salvacondotto: “too big to fail”, troppo grande per fallire, si dice delle banche; “tutti colpevoli, nessun colpevole”, è la tentazione della politica. Ma le cose non stanno così. Ci sono imprenditori troppo piccoli per permettersi l’impunità – magari quelli che, di fronte al dramma della recessione, sprofondano persino nel suicidio –, e ci sono pubblici funzionari, manager, lavoratori onesti. Per rispetto a tutti costoro, è necessario mantenere le necessarie distinzioni e sforzarsi di capire volta per volta quale minestra si sta cucinando in quello che altrimenti sembra un unico maleodorante calderone.


Nei casi tra loro connessi di Telecom e Fastweb ci vorrà un po’ per avere la verità giudiziaria: ossia per sapere se i vertici delle due società sono da considerare responsabili o no di quel che avveniva presso le loro controllate. Ma “quel che avveniva” non è più in dubbio, purtroppo: una gigantesca truffa al fisco. Vale a dire, sia l’erede del monopolio pubblico delle telecomunicazioni (Telecom Italia, venduta ai privati negli anni ‘90 con una procedura che a suo tempo fece molto discutere, e con gran fretta per urgenza di cassa), sia il suo più promettente concorrente (una società nuova di zecca, fiore all’occhiello della new economy italiana) avevano in seno un gruppetto di manager che frodava il fisco facendo risultare un falso traffico telefonico all’estero. La quantità di denaro in ballo era gigantesca, non si trattava di una piccola evasione. E il guadagno avveniva grazie all’aiuto di altre società, collegate all’organizzazione criminale chiamata ‘ndrangheta: poiché gli affari illeciti di una società regolare sono la migliore lavanderia possibile per chi ha denaro sporco da “pulire”, si capisce bene che in quella zona grigia prosperano mafie e organizzazioni criminali di ogni tipo. Il cui principale problema, come non si stanca di ripetere il procuratore di Reggio Calabria Nicola Gratteri, non è quello di procurarsi il denaro ma quello di pulirlo.


Ma lasciamo stare la zona più sporca, quella nera, e tralasciamo per un momento anche quella “grigia”. Il punto è: cosa succedeva nel frattempo nella zona bianca, nelle alte sfere delle grandi società? Cosa facevano i loro amministratori, i sindaci, i revisori dei conti? I processi diranno se sono da considerare colpevoli, per responsabilità soggettiva o oggettiva. Ma prendiamo per buona l’ipotesi che nessuno sapesse niente: è l’ipotesi migliore per i vertici imputati, ma se ci si pensa bene è la peggiore per il sistema nel suo complesso. Perché vorrebbe dire che al suo interno hanno operato regole, incentivi e controlli del tutto inadeguati. Non è una novità: sulla totale mancanza di controlli e regole è nato il grande crack finanziario del 2008 che ha innescato la crisi economica nella quale siamo tuttora immersi. Però in questo caso vediamo meglio come agisce “l’impresa irresponsabile”: l’ottica del profitto di breve periodo, e la pressione che si fa sui manager perché portino il massimo dei risultati nel minimo tempo possibile, può portare sugli allori chi fa affari con le zone grigie e nere. Possibile che negli anni della grande truffe i manager in questione (ora scaricati) abbiano anche preso un superbonus. Se la finanza vince su tutto, e i risultati finanziari si misurano nel breve periodo, ecco che ogni trucco contabile diventa una medaglia al valore, e i rapporti con la criminalità organizzata un incidente di percorso nella strada verso il super-dividendo.


Ma se questo è il primo drammatico errore di sistema, e riguarda il funzionamento dell’impresa privata, ce n’è un altro che emerge dalla vicenda dei falsi rimborsi Iva delle telecomunicazioni: la mancanza dell’Europa. Un sistema economico, monetario e finanziario unificato che non ha alcuna unità politica, alcun coordinamento di governo, non ha grandi strumenti per combattere un’evasione (o elusione) fiscale che gioca con grande facilità attraversando i confini. In seguito al crack del 2008, molti paesi europei hanno alzato la voce contro i paradisi fiscali, e si è visualizzata in quell’occasione la loro presenza negli stessi confini europei; ma oltre ai paradisi fiscali in qualche modo riconosciuti, ci sono quelli creati dall’incrocio tra sistemi diversi, dai “buchi” nel loro coordinamento, e in questi paradisi – come si è visto dalle vicende delle nostre società di telecomunicazioni – scompare del tutto il confine tra il capitalismo sommerso e quello “emerso”.


Di fronte a tale scenario, la politica – se volesse – potrebbe muoversi senza aspettare i giudici. Suona strano dirlo, visto che da anni una parte della politica italiana si muove esattamente per fermare i giudici, smontare le regole, allargare lo stato d’eccezione (il caso della Protezione civile è lì a dimostrarlo). Ma è insufficiente anche dire “rispettiamo i giudici, lasciamo che si facciano i processi”. Gli scandali delle nostre grandi imprese private – sia quelli telefonici di cui abbiamo parlato finora, che quelli delle imprese di costruzione legate al terremoto o ai grandi eventi – infatti fanno emergere la necessità di interventi radicali di sistema, né più né meno di quelli che avrebbe imposto e impone lo scoppio del bubbone Lehman Brothers negli Stati Uniti.


Negli stessi giorni in cui sui nostri giornali impazzavano Di Girolamo e i casi Telecom e Fastweb, su quelli internazionali si leggeva dei primi risultati dell’inchiesta statunitense sul fallimento della banca d’affari Lehman Brothers, avvenuto il 15 settembre 2008. Risultati che hanno scombussolato la finanza, giacché è venuto fuori che prima c’è stata una deliberata – e non pubblicizzata – decisione di far salire la soglia del rischio che la banca poteva prendersi; e poi che per mesi e mesi, man mano che veniva fuori che il mercato immobiliare stava scendendo e dunque la presenza di titoli così rischiosi nel portafoglio stava per mettere in pericolo tutta la baracca, i conti sono stati truccati per nascondere la realtà; e addirittura a confezionare il trucco abbia contribuito anche la banca centrale americana, la Federal reserve. In altre parole, sembra venir fuori una vera e propria truffa della grande banca ai danni del risparmiatori.


Anche in questo caso, il confine tra un capitalismo finanziario solo un po’ rampante e sregolato, ma legale, e l’attività illegale e criminale è molto labile, sfuma fin quasi a scomparire. E anche nel caso americano, ci si interroga sulle complicità, le responsabilità dei massimi vertici (potevano non sapere cosa si stava preparando nel gruppo? E il non aver predisposto un sistema di controlli adeguato, non è in sé una colpa sanzionabile in tribunale?), i “buchi” nei controlli interni ed esterni al governo della società, i conflitti di interesse che inquinano dall’interno imprese e istituzioni. Avvocati e consulenti cercano di correre ai ripari, la politica – da Obama a Brown a Sarkozy, non passando per il presidente del consiglio italiano che ha altro a cui pensare - cerca di rifarsi una faccia presentabile attaccando la speculazione e i suoi mostri. Mai come in questo momento, sarebbe necessaria una partecipazione collettiva a un dibattito che interessa tutti: come impedire che il sistema che è crollato risorga sulle sue stesse ceneri? Come voltare pagina, rispetto alle truffe finanziarie e fiscali? Come ritornare a un “mercato” che valuti un’impresa per quel che può produrre nel lungo periodo e non per il volto truccato che mostra nel brevissimo periodo?


Purtroppo la prima fase della crisi, quella “solo” finanziaria, è stata un’occasione per molti aspetti persa: banche e istituzioni finanziarie hanno ottenuto ingenti aiuti, non condizionati però all’introduzione di radicali cambiamenti nel sistema della governance e dei controlli. Addirittura, come si è dimostrato per gli Stati Uniti, in alcuni casi le stesse banche che hanno avuto gli aiuti di Stato hanno continuato a pagare superbonus ai loro alti dirigenti che avevano guidato gli istituti verso il crac. Ma adesso siamo in una seconda fase della crisi, una recessione globale che investe tutto il mondo occidentale. Forse la durezza della realtà – con i suoi disoccupati, fabbriche chiuse, famiglie impoverite – potrà rompere il circolo autoreferenziale delle élite politico-finanziarie. E far intravedere una diversa concezione dell’etica, dell’economia, della politica.