“Memorie di un marxista indipendente” Con la crisi economico-finanziar All'inizio ho adottato la tesi di Lenin, secondo la quale il capitalismo dei monopoli costituisce una nuova fase nella storia del capitalismo, annunciata alla fine del diciannovesimo secolo, e il capitalismo è diventato una forma di imperialismo soltanto a partire da quella data. In seguito, però, ho finito per elaborare l'idea del carattere originariamente polarizzante - dunque in qualche modo imperialista - del capitalismo sin dalle sue origini. Ritengo infatti che l'accumulazione su scala mondiale sia sempre stata, in modo non esclusivo ma prevalente, una accumulazione per esproprio. Un esproprio che non riguarda soltanto l'«accumulazione primitiva» analizzata da Marx e riferita alle origini del capitalismo, ma che è un tratto permanente nella storia del capitalismo storico realmente esistente, a partire dall'epoca mercantilista. Quel lungo periodo di transizione in cui il ruolo centrale nella mondializzazione, organizzata intorno alla conquista delle Americhe e alla tratta dei neri, assume la forma evidente e indiscutibile dell'accumulazione per esproprio. Questa accumulazione si dispiega poi lungo tutto il corso del diciannovesimo secolo, e si radicalizza con la formazione dei monopoli, che favoriscono l'esportazione di capitale su una scala molto più ampia, «installando» segmenti del sistema capitalista mondializzato nelle colonie «d'oltremare», nelle semi-colonie, nelle colonie dell'America latina. D'altronde, che la polarizzazione sia immanente allo sviluppo mondializzato del capitalismo, accompagnandolo sin dalle origini, lo dimostra un semplice dato: fino al 1820 circa il prodotto interno lordo pro capite della Cina era superiore a quello, medio, dell'Europa avanzata. Tra il 1820 e il 1900, si passa invece da un rapporto 1 a 1 a un rapporto 1 a 20, e dal 1900 al 2000 da 1 a 20 a 1 a 50. Già in «Oltre il capitalismo senile» lei scriveva che, proprio a causa del suo «tallone d'Achille» - la dimensione finanziaria - il sistema capitalistico stesse preparando «una imminente catastrofe finanziaria». Ora l'imminenza è realtà: cosa intende quando sostiene che quella attuale è «la crisi del capitalismo imperialistico degli oligopoli», organicamente legati alla finanziarizzazione del sistema? Proseguendo una direzione di ricerca inaugurata dal libro di Sweezy e Baran del 1966, Monopoly Capital - la prima formulazione coerente della trasformazione qualitativa del capitalismo avvenuta alla fine del diciannovesimo secolo con l'istituzione dei monopoli - ho individuato l'impatto di due grandi ondate nel processo di monopolizzazione: la prima ha inizio alla fine del diciannovesimo secolo e si estende fino al 1945, la seconda comincia negli anni Settanta del secolo scorso, e, dunque, non coincide affatto con la crisi finanziaria del 2008. In questa seconda ondata, il grado di monopolizzazione assume un rilievo senza paragoni. Il che mi porta a ritenere che quello contemporaneo sia un capitalismo degli oligopoli generalizzati, mondializzati e finanziarizzati. Oligopoli generalizzati perché controllano l'economia nel suo complesso (oltre che l'ambito politico e culturale), perfino quei settori non direttamente monopolizzati. E mondializzati anche per effetto delle politiche liberali e neoliberiste degli anni Ottanta, Novanta e Duemila. Ora, per quanto riguarda la finanziarizzazione, anche da «sinistra» buona parte delle analisi sul sistema finanziario tendono a separare la finanziarizzazione, artificiale e negativa, dal buon capitalismo produttivo. Non è così: i due aspetti vanno di pari passo. Gli oligopoli sono finanziarizzati proprio nel senso che non c'è da una parte un settore finanziarizzato, quello delle banche, delle assicurazioni, dei fondi pensioni, e dall'altra un sano settore produttivo. Piuttosto, sono gli stessi oligopoli a essere proprietari delle grandi imprese produttive e, allo stesso tempo, delle grandi istituzioni finanziarie. E a loro volta questi oligopoli hanno bisogno dell'espansione finanziaria per assicurarsi il dominio sull'economia e sull'intera società. La «sovrapposizione» In un suo recente saggio, «A critique of the Stiglitz report», lei afferma che una mondializzazione negoziata passa per lo «sganciamento» Non esistono alternative praticabili allo sviluppo autocentrato, che subordini le relazioni esterne alle esigenze di trasformazione interna, le più progressiste possibili. Non si tratta di semplice autarchia, ma del capovolgimento della logica attuale: anziché adeguarsi, anziché piegarsi alle tendenze dominanti su scala mondiale, occorre operare affinché siano tali tendenze ad adeguarsi alle esigenze interne. Questo è il senso che attribuisco alle iniziative indipendenti da parte dei paesi del Sud del mondo. Le ragioni per farlo sono evidenti nella maggior parte dei casi. Forse non per i tre nuovi giganti economici: Cina, India e Brasile, che, ciascuno per sé, possono contare su un peso equivalente a quello di una grande regione, e che per questo sembrerebbero non avere bisogno di affidarsi ad accordi sottoregionali e inter-regionali. Eppure, anche questi paesi accusano dei deficit, basti pensare alla scarsità delle risorse naturali, energetiche in primo luogo, di cui hanno bisogno. E questo vale a maggior ragione per le altre regioni, per i paesi del sud-est asiatico, del mondo arabo, dell'Africa subsahariana, dell'America latina spagnola. In tutti questi casi, gli accordi sottoregionali servono a istituire, in via negoziata, forme di complementarietà A proposito di risorse naturali: lei sostiene che, «lungi dall'essere risolta, la 'questione agraria' è più che mai al cuore delle sfide che l'umanità dovrà affrontare nel ventesimo secolo». Perché ritiene che il capitalismo, «per sua stessa natura, è incapace di risolverla», e perché crede che sappia offrire soltanto la prospettiva di un pianeta di bidonville? L'accumulazione per esproprio che caratterizza il capitalismo storico, quello che all'inizio del diciannovesimo secolo è andato cristallizzandosi intorno al triangolo Londra-Amsterdam- |