Foucault per tutti. Lezioni di critica al neoliberismo


di Marco Assennato

A metà degli anni ’70 Franco Fortini dedicò qualche pagina pungente all’impresa teorica del giovane Cacciari – si tratta più o meno dell’epoca di Krisis – impegnato allora a sdoganare Nietzsche e Wittgenstein dalla reazione idealistica e però, allo stesso tempo, deciso a ripiegare la potenza ermeneutica del pensiero della crisi sugli algidi orizzonti dell’analitica weberiana. Seppure timido rispetto a questi autori, Fortini ben colse già allora, il tentativo di apparecchiare un Nietzsche per tutti, buono per consolare i sacerdoti della pianificazione capitalista e carezzare i desideri sovversivi dei giovani filosofi. L’approccio di Cacciari fu allora descritto come un saggio immancabile di chi vuole ad un tempo dirsi belva e compagno: internazionalista e rivoluzionario certo, ma solo come sanno esserlo gli agenti delle multinazionali della finanza. È curioso notare come si ripresenti ad ogni tornante critico questa posa ambigua: antiaccademica ma d’ordine, coraggiosa nell’immaginare il futuro ma solo in quanto coincide col presente, tecnocratica ma certo infinitamente più sottile e forte di ogni nostalgia gauchiste, d’ogni amore per tutto ciò che é Stato.
Era certo, quello lì, un altro mondo. Eppure quella tattica teorica vale ancora: si prenda un autore, o un quadro teorico, potenzialmente produttivo, foss’anche e soltanto sul piano metodologico; se ne accentuino i caratteri critici, fino a darne una lettura sovversiva; e poi però la si ripieghi indietro – come la testa del ben conosciuto angelo di Klee – così che possa, allora mettiamo Nietzsche e oggi poniamo un Foucault o un Deleuze, esser masticato con gusto dai palati più raffinati dei tecnocrati e dei governi.
Confezionato in tal modo, il pacchetto è perfetto per le accedemie d’ogni angolo del globo, sufficientemente critico epperò debitamente spuntato. Così avanzano oggi le letture liberali di Foucault. E non le più volgari e bolse, quelle che vorrebbero un Foucault solo scettico e non politico, uomo di morale libertaria ma incapace di pensare sul piano generale della società o della produzione di soggettività (esempi non ne mancano). Ma quelle appunto più sottili: dedicate ad apparecchiare, come già per Nietzsche, appunto, un Foucault per tutti, che affascini ma non disturbi. Mi pare sia il caso dell’ultimo libro di Geoffroy de Lagasnerie, La dernière leçon de Michel Foucault. Sur le néolibéralisme, la théorie et la politique, appena pubblicato da Fayard e classificatosi tra “i 5 testi più importanti per le scienze umane” in Francia. Vale forse la pena, dunque, di accarezzare il filo del discorso di questo libro di successo, per poi passarlo in contropelo.
La premessa dell’autore è incontestabile e paradossale. Incontestabile la decisione di partire dal corso di Foucault al Collège de France intitolato Naissance de la biopolitique per reinventare una politica radicale e libertaria. Incontestabile il posizionamento: per farlo bisogna innanzitutto spiegare la scelta di Foucault diversamente rispetto a coloro che vi vedono pulsioni liberali o l’intento di se droitiser. Eppure paradossale perché la chiave che sceglie l’autore è quella della fascinazione. Foucault sarebbe stato affascinato dal neoliberismo (o neoliberalismo per stare al testo) dei vari Hayek, Nozick, Menger, von Mises, Becker poiché lo scavo filosofico di questi autori costituisce una tattica teorica in grado di produrre una offensiva contro la società disciplinare. Così ciò che si fa uscire dalla porta – Foucault liberale – rientra dalla finestra. Tanto più è paradossale, questo schema, in quanto l’intera introduzione del libro è dedicata, giustamente, a ricordare il metodo di Marx, qui accostato a Foucault: nella sua Critica al programma di Gotha del 1875, la vecchia talpa rompeva con ogni critica precapitalista del capitalismo, riconoscendo la borghesia e il capitale come forze rivoluzionarie, innovative, produttive. Allo stesso modo, dice Lagasnerie, Foucault vuole rompere con ogni critica preliberale del neoliberalismo. Del resto, si potrebbe aggiungere, già nel 1848 Marx aveva spiegato nel suo Discorso sul libero scambio come al superamento del capitalismo si possa arrivare solo attraverso il pieno dispiegarsi dei suoi effetti, che sono sempre e ad un tempo positivi e negativi. Infatti, puntualizzava Marx, «non per il fatto di dirsi nemici del regime costituzionale ci si dice amici dell’antico regime». Solo bisogna discernere le politiche materialmente conservatrici da quelle distruttive di antichi ordini, capaci di spingere all’estremo l’antagonismo di classe. Ed è solo in questo senso, rivoluzionario, che ci si può collocare nella direzione dello sviluppo delle forze produttive. Insomma il Moro sapeva bene che la critica non esiste in quanto reazione ma solo inscrivendosi nella tendenza dell’ampliamento della base produttiva al fine di radicalizzarne le potenzialità: si parte sempre da ciò che il capitale ha inventato ma per riattivarne la potenza, rigenerarne la forza rivoluzionaria e dunque trasformarlo completamente. Gli operaisti dicevano dentro e contro. Epperò pare duro da digerire, questo approccio: che vale certo per Marx come per Foucault. Ed è lontanissimo dalla fascinazione quanto il semplice realismo dallo smarrimento dei sensi. Ma in effetti sempre a fascinazione si tenta di ridurre quel metodo: quante volte abbiamo letto e ci tocca di leggere della possibile trasformazione dell’eresia postoperaista in una filosofia liberale di (estrema) sinistra?
Il saggio di Lagasnerie, estremamente chiaro e completo, procede piano e senza increspature. Foucault, dice l’autore, vuole liberare il pensiero radicale da ogni nostalgia, e ciò è fondamentale per tutti noi oggi. Al neoliberismo non si possono opporre le retoriche della perdita dell’ordine e dell’unità, della delusione per la distruzione d’ogni trascendenza: nostalgie di Stato, Costituzione, Industria. Bisogna innanzitutto individuarne la specificità, vedere cosa il neoliberismo innova, cosa produce poiché «solo questa attitudine permette di concepire una contestazione al neoliberalismo che non gli opponga ciò che esso ha già distrutto». Ineccepibile. E di più: la lezione dell’approccio foucaltiano consiste nel cercare la potenza innovativa del neoliberismo, descrivere le pratiche politiche e discorsive, le tecniche di emancipazione che sono liberate dal dispositivo neoliberale ma che quello stesso sistema non riesce a rendere effettive. E come dargli torto? In nulla, qui, possiamo contestare l’analisi. Che Foucault si preoccupi – sempre per altro – di vedere quali nuove esigenze democratiche, culturali, sociali, quali nuovi rapporti alla violenza, alla morale, alla diversità, emergono nelle diverse età, pare semplice buon senso: ma proprio perché si tratta di definire, in particolare in questo corso sulla biopolitica, come funziona il dispositivo neoliberale, che rapporto costruisce rispetto alle soggettività, come si riposizionano i micropoteri all’interno di questo nuovo ordine del discorso. Questo semplice, secondo passaggio, viene da Lagasnerie, semplicemente omesso. Ed il gioco allora diventa semplice.
Semplice diventa allora ricordare che Hayek aveva di mira lo Stato e la pretesa di governare tutto, tutto pianificare, e accostare questo punto di vista alla critica dei sistemi disciplinari che attraversa per intero l’opera di Foucault. Semplice riferirsi al taglio libertario di Nozick, e più in generale alla legittima aspirazione dei neoliberisti di riprendere un discorso capace di guardare al futuro, di contestare il monopolio socialista dell’utopia e dell’immaginazione. Ma è in questo senso che Foucault descrive il neoliberismo come una “utopia”? o non è forse perché, nella pretesa di non governare troppo, nell’estensione del mercato a tutta la realtà, Foucault distingue minuziosamente una nuova forma di governamentalità, un intervento massiccio del potere sulla società in tutto il suo spessore e lungo ogni nodo della sua trama? Ovvero: un movimento contraddittorio che, lungi dal rappresentare la tattica possibile contro l’assoggettamento proprio di ogni società disciplinare, definisce una nuova forma di controllo sulle singolarità? Foucault qui è affascinato dalle luci del neoliberismo o sta definendo – come lascerebbe presagire già soltanto il titolo delle sue lezioni – l’emergere della biopolitica, ovvero del modo in cui il potere si trasforma al fine di governare gli individui ben oltre le tecniche disciplinari? Non si tratta forse qui di analizzare l’emergere di una economia politica della vita in generale, al fine di ricollocare poi nel lavoro, nei linguaggi, nei corpi, nei desideri, le linee di produzione di soggettività, contro-poteri che – questi sì – possono determinare spazi di libertà contro l’assoggettamento del biopotere neoliberale?
Bisogna insomma capire se Foucault sta qui definendo l’emergere di un nuovo dispositivo, successivo a quello disciplinare e dunque una nuova relazione alle soggettività agenti. O no. E si tratta di decidere sullo statuto teoretico di questi due termini: dispositivo e soggettività. Ma questo esercizio non appassiona Lagasnerie: perché se solo si occupasse di questi termini, tutto il suo discorso crollerebbe come un castello di carte. Eppure, grazie a questa macchia cieca, l’autore può dedicarsi ad articolare sempre più a fondo la coppia neoliberismo-critica delle società disciplinari (e della ragion di Stato): cos’altro è il pensiero neoliberale se non una critica dell’universalismo illuministico, ovvero della linea Rousseau-Kant-Rawls? Un contro-illuminismo che s’oppone a chi pensa «l’edificazione di una entità sopra-individuale che implicherebbe (…) la necessità di far esistere un quadro trascendente sulla pluralità dei giochi e degli interessi particolari», questo è, secondo Lagasnerie, il pensiero neoliberalista. Una strategia di valorizzazione del «disordine e dell’immanenza» contro ogni pensiero dell’unità e della totalizzazione, un pensiero della «pluralità» più che della «libertà» capace di mettere in scacco tutte le «concezioni hegeliane e dialettiche». Ora l’unico polo opposto alle istanze totalizzanti, sovrane e trascendenti del potere, secondo  Lagasnerie, è la «forma mercato». Così immanenza, singolarità, pluralità, differenza, disordine ripiegano sul mercato contro lo Stato, polarità dell’ordine, della trascendenza, dell’unità, della totalità. Ed è questo che avrebbe «sedotto» Foucault. E del resto, si chiede l’autore, non coincide questa critica dell’universalismo illuministico, con la critica foucaultiana del marxismo e della psicanalisi (stavolta, lo spettro di Marx che era stato fatto entrare dalla porta è gettato via dalla finestra)? Non è forse l’idea di una società eterogenea e plurale che rende impossibile ogni amministrazione centralizzata, e si fonda sul conflitto permanente, su differenze non conciliabili, su lotte multiple e conflitti settoriali che preoccupa Hayek per tutta la sua vita e che interessa Foucault? La pluralità e la differenza, sottolinea qui l’autore, sono le questioni in gioco per ogni politica che sappia opporsi all’idea di un «comune-a-venire». Vien da dire, col sorriso: dev’essere vero che siamo parlati dal linguaggio. E d’aggiungere, parafrasando il Marx del 1848, «ma dal fatto di dirsi nemici d’ogni antico regime come delle vecchie costituzioni non consegue che siamo amici del mercato».
La chiusa del libro, infine, si concentra sull’analisi del rapporto tra homo œconomicus e psicologia: cioé sull’analisi che Foucault dedica al lavoro di Gary Becker sulla criminalità. Qui, ancora una volta, secondo l’autore, è l’impianto neoliberista, esterno alle distinzioni tra normale e anormale, che interessa Foucault come strumento che apre la strada alla decostruzione del discorso psichiatrico e del discorso disciplinare classico. L’approccio neoliberista produce «una politicizzazione della quasi totalità delle dimensioni dell’esistenza» e «destabilizza l’insieme del sistema penale (…) che si regge sulla patologizzazione del criminale». Perciò Foucault vedrebbe nell’homo œconomicus neoliberista «una istanza di critica radicale dei fondamenti dell’esercizio del potere disciplinare». Evidentemente Lagasnerie è alla ricerca di un approccio individualistico ma non repressivo, libertario. Ed è l’individualismo la cifra profonda di ogni lettura liberale di Foucault. Riduciamo prima al dispositivo neoliberalista ogni critica della governamentalità, e poi cerchiamo nell’individuo atomizzato la forma della soggettività agente. La produzione di sé viene piegata alla forma dell’ homo œconomicus di Becker e compagnia. Ed è attraverso questo esempio che il rapporto di Foucault al neoliberismo riceve la sua silloge finale. No, il filosofo del Collége de France non stava virando a destra in quegli anni, ma stava scoprendo nel neoliberismo un «punto d’appoggio» possibile per l’elaborazione di pratiche critiche. Mi pare si possa dir poco di questa ipotesi, se non rivolgere a Lagasnerie la domanda retorica con la quale Foucault si avviava alla conclusione del suo corso sulla biopolitica, nella lezione del 28 marzo 1979:
«Est-ce que l’homo œconomicus, c’est un atome de liberté en face de toutes les conditions, de toutes les entreprises, de toutes les législations, de tous les interdits d’un gouvernement possible, ou est-ce que l’homo œconomicus n’était pas déjà un certain type de sujet qui permettait justement à un art de gouverner de se régler selon le principe de l’économie – (…) dans le deux sens du mot: économie au sens d’économie politique et économie au sens de restriction, autolimitation, frugalité du gouvernement?»
Foucault chiosava sottolineando il carattere retorico della domanda e dedicava la fine del suo corso all’antropologia neoliberista come «elemento di base della nuova ragione governamentale». Sono le pagine, bellissime, dedicate alla mano invisibile, all’economia come scienza opaca, senza dio né sovrano: pagine certo a tutti note. Resta a questo punto la piena legittimità di volersi dire, ieri come oggi, anarchici e accademici, radicali e liberisti come Lagasnerie. Basta sapere che l’ultima lezione di Foucault, non era buona per tutti, come ogni critica efficace.