A proposito di capitale fittizio, stato e ricette anticrisi



di Dante Lepore

È opportuno premettere che l’atteggiamento ostile verso la «speculazione» è comune a tutte le posizioni. Sembra che questa speculazione sia un corpo (essi la chiamano «sfera») estraneo che causa la malattia del capitalismo, che, senza di essa, sarebbe sostanzialmente un corpo sano. Come quando la malattia è concepita come l’antitesi assoluta della salute (vista anch’essa come stato assoluto di beatitudine) anziché come il rovescio dialettico della salute. Non si trova nessuno che affermi che la speculazione sia una cosa buona; anche quando andava bene, al massimo la si accettava per costume pragmatico, perché sembrava si fossero acquisiti quei meccanismi conoscitivi che permettevano di arricchire in fretta con l’inflazione pletorica del capitale. Fino a quando, negli ultimi due anni, l'aumento del debito pubblico superava la riduzione del debito privato, anche i mercati crescevano, al punto che gli stessi privati si indebitavano sempre più sotto l’effetto del sistema Ponzi; ma quando l'aumento del debito privato, coi mutui, assicurazioni, ecc., ha superato l'aumento del debito pubblico, i mercati si sono fermati.

Per capire lo stretto legame tra capitale fittizio e indebitamento pubblico e privato, basta considerare come esso altro non sia che il rovescio speculare del credito: se si prende del denaro a credito, da un lato esso è prestito, in mano al finanziere (banche, ecc.), dall’altro è debito (Stati, comuni, famiglie, imprese, privati cittadini). Ci si indebita con i muti per la casa, ma anche per i consumi quotidiani, e persino per pagare gli interessi per i debiti contratti. E fino ad un certo punto, ossia fino a quando il rapporto tra consumo produttivo e dispendio improduttivo non è sbilanciato verso quest’ultimo, la cosa funziona: nel 2007, il settore industriale (esclusa edilizia) pesava negli USA per il 12%, di contro al 23% della Germania e al 43% della Cina, e dunque ilconsumo produttivo tedesco era doppio rispetto a quello americano, mentre quello cinese era di tre volte e mezzo rispetto a quello USA e circa doppio rispetto al tedesco. Ormai, ad oggi, i livelli di indebitamento medio superano, per i lavoratori dipendenti, il salario medio. Significa che il salario, quando va in mano a chi lo percepisce, non basta a coprire i debiti già contratti, sia per i monoreddito che, ormai, anche per i plurireddito. I lavoratori, in Italia come in tutti i Paesi capitalisti, si indebitano sia quando i consumi tirano e il credito è facile che quando, con la crisi, il credito è più oneroso e devono indebitarsi per sopravvivere. Ora che questi meccanismi, osannati dai tecnocrati della finanza alla von Mises, si sono brutalmente inceppati, tutti ne dicono peste e corna, inclusi Obama e Tremonti… e Monti e Draghi che ci assicurano di volerla «regolamentare». Le differenze sono appunto sul come contenerla, arrestarla, regolamentarla, ma non abolirla (ci mancherebbe!).

Qui comincia il sospetto: se si abolisse la speculazione, e con essa la perversione dell’in-debitamento, il capitalismo (che, fino a prova contraria, nessuno ha ancora «abolito») non si abolirebbe anch’esso?

Curioso è che per tutti, tranne per coloro che da decenni se ne attendevano il «crollo», ci sarebbe un’economia migliore, reale, buona per tutti, un capitalismo “dal volto umano” come si diceva fino a ieri. Quelli che se ne aspettavano il crollo da decenni, puntualmente smentiti dopo ogni previsione di tale crollo, preferiscono ora parlare non più di crisi ma di «declino», perché han finalmente capito (forse?) che le crisi sono dei momenti di trasformazione in cui qualcosa muore, ma non del tutto, e qualcosa nasce, ma mai dal niente, e sempre il nuovo era già contenuto nel vecchio. In questa ottica, avrebbero anche ragione coloro che vogliono semplicemente «regolamentare» la speculazione, limitarla nelle dimensioni e nei ritmi. Insomma si tratterebbe di disciplinare i «grandi speculatori», lasciando credere che i piccoli, tra cui si annoverano anche i lavoratori, ne sarebbero sollevati. In effetti, anche i lavoratori speculano, anche se in piccolo, quando comprano a rate o scommettono, ecc.

Se si pone mente o ci si informa un tantino del contenuto concettuale dell’economia “speculativa”, si scopre che alla sua base ci sono: il desiderio, l’aspettativa, il gioco aleatorio, il gioco d’azzardo, la scommessa, il rischio, il valore atteso,…insomma una sorta di miraggio, niente di oggettivo, reale, ma soggettivo, fittizio, qualcosa che fa pensare più al giocatore di Dostoevskij che ai calcoli ponderati dell’ingegnere. Si comprende già da questo che senza speculazione, e senza indebitamento, il capitalismo non sarebbe più tale. Questi elementi di speculazione non costituiscono una «sfera» accanto a quella «produttiva», ma sono già insiti nell’atto elementare di compravendita, ossia nel commercio, anche nel commercio della forza-lavoro. Alla base della così (ipocritamente) vituperata speculazione, c’è tutto un modo di produzione nato dall’economia edificata sul “valore di scambio”.

Quando l’acquisto e la vendita si realizzano, entrano in gioco due elementi, il tempo e lo spazio. Questi fattori sono già di per sé due elementi di crisi. Se io acquisto una merce che poi rivenderò, magari in un altro luogo, è evidente che fondo la successiva vendita su un’aspettativa aleatoria di profitto, una condizione speculativa quindi, che è un fattore di rischio: potrò guadagnare ma potrò anche perdere se nel frattempo ilprezzo di quella merce, compreso il denaro o i suoi sostituti fino alla pletora, sarà salito o disceso, e ciò vale anche per il venditore. Speculative sono anche le compravendite della merce forza-lavoro, ovviamente, con l’unica differenza che qui lo scambio non è mai fra equivalenti, non c’è possibilità di competizione e “libero” mercato, per via della forza schiacciante del dispotismo capitalistico, e che la capacità lavorativa vivente è l’unica merce in grado di creare sostanza di valore con effetti reali nella biosfera.

Questo elemento speculativo (peraltro riflesso della condizione di generale alienazione dell’intero sistema sociale) tanto più si impone quanto più il mercato diventa mondiale, quanto più l’economia fondata sul valore si estende e penetra in profondità nella vita sociale, quanto più il capitale tende ad accelerare la sua rivalorizzazione, fino ad incappare nei limiti e ad auto inflazionarsi. È appunto la condizione di universale alienazione del corpo sociale nel capitale di cui tutti, compresi gli agenti del capitale come i Marchionne, sono in balia senza poterci far nulla. La speculazione che cos’è, in fondo, se non la manifestazione vistosa di un capitale totale che si gonfia e si inflaziona al punto che non riesce più a riprodursi? È assurdo spiegare la crisi con una sottrazione di capitale monetario agli investimenti produttivi, come fanno tanti anche sedicenti marxisti, sottintendendo che un rientro di capitali alla «sfera produttiva» sia possibile e risolutore. Questa è l’epoca dell’alienazione del capitale così ben descritta da Marx nei Grundrisse (se li leggano estudino una buona volta i chiacchieroni a vanvera dello speculative capital! Il capitale produttivo della fabbrica è sottomesso realmente e definitivamente al capitale resosi autonomo. Ma è il capitale sociale complessivo, ossia non una semplice grandezza economica, ma tutto il sistema sociale capitalistico, che è in crisi di riproduzione, ossia in crisi sistemica (lo chiamino pure alla buon ora «declino» gli ex crollisti ora pentiti, ma resta il fatto che il rapporto capitale, anche se in declino o in putrefazione, o «cadavere che ci costringe a ballare con lui», non è affatto morto, resta sempre lo stesso, se a dargli la spallata non sono i lavoratori coscienti e vivaddio organizzati per farlo). Quando si considera il capitale sociale complessivo, e non la singola azienda con le sole due figure del capitalista e dell’operaio, allora si ha a che fare con il livellamento del saggio di profitto, una delle prime potenti leve del capitale fittizio.

Ed è curioso come, senza essere marxisti, molti accademici e maitres à penser dell’economia comincino a parlare di crisi sistemica, nel momento in cui la speculazione, partita dai mutui subprime americani e dall’immenso congegno debitorio mondiale del dollaro e giunta al default degli apparati statali, per ora piccoli come la Grecia e l’Irlanda ed altri ancora più piccoli o più grandi già verificatisi ancora prima di questa ondata, ma che già profila all’orizzonte uno scontro tra aree monetarie come quella del dollaro, lo yuan e dell’euro, o uno spostamento del baricentro economico verso le zone emergenti del pianeta, dove si concentra l’80% della popolazione mondiale, sembra essere la chiave di volta per agire, ancora una volta, in senso correttivo del capitalismo,… solo che si regolamenti appunto uno dei suoi caratteri.

Nella realtà, quella che dobbiamo individuare e rappresentare nell’astrazione scientifica, capitale produttivo e forma speculativa sono realmente e fisicamente indistinguibili, il capitale industriale è intrecciato con quello bancario e la bolla fittizia scoppia quando la velocità di estrazione del plusvalore nella I e II sezione (mezzi di produzione e mezzi di consumo) condizionata dall’entità e dai tempi del consumo produttivo, che ha dei limiti fisici e storici, si scontra con la velocità e la crescita teoricamente infinita delle transazioni a scadenza proprie del credito ossia del capitale fittizio: significa che non c’è abbastanza plusvalore per la riproduzione allargata, ossia per gli investimenti produttivi perché questo plusvalore dovrebbe ricoprire tutta la catena di indebitamenti e anticipazioni, promesse e aspettative più o meno fasulle di cui sopra. Nella realtà (e non nell’immaginazione dei teorici intenti a far le pulci ai marxisti reali o sedicenti) il capitale speculativo non deriva né da spostamento né da conversione di capitale monetario già generato dal capitale produttivo nel processo di valorizzazione e realizzato nel processo di circolazione, o piuttosto da plusvalore già estratto, ma è per l’appunto speculazione, è “capitalizzazione” di titolo cartaceo (i bond, le obbligazioni, le azioni, gli hedge fund, insomma tutta la fantasiosa gamma dei titoli a reddito fisso e variabile che danno “diritto”, in virtù del semplice fatto che li si possiede, ad una spartizione di “dividendi”) raffigurante un’aspettativa di “capitale” anticipato (ma in realtà fittizio, non realizzato in un nuovo processo di riproduzione allargata), plusvalore virtuale che deve essere ancora estratto, è per l’appunto capitale fittizio. La rendita fondiaria e immobiliare non partecipa affatto alla produzione materiale del valore, ma è un “diritto” derivante dalla proprietà privata, così come non vi partecipa l’interesse, che è un “diritto” derivante dalla proprietà del denaro come mezzo di scambio. Né partecipa alla produzione materiale di valore l’imposta statale che è fondata sul …diritto dello stato ad imporre la tassazione per i presunti servigi resi alla popolazione in quanto “buon padre di famiglia”.

Prescindiamo dal fatto che la vasta gamma dei servizi comprende anche alcune attività produttive organizzate e gestite da aziende private o statali, ma questo è un altro problema che non interferisce col fatto che tutte le attività connesse con la contabilità del capitale (pubblica e privata amministrazione, gestione del potere politico e militare) rientrano nel marasma del foraggiamento parassitario del capitale. Lo stato (e l’imposta) si comporta come un’azienda rispetto ad altre aziende, prende in prestito dalle banche ed emette titoli e li compra a sua volta dalle banche e dai privati. Lo stato è poi costretto a “salvare” le banche dall’insolvenza e dal crollo per salvare se stesso.

Il capitale rentier (o in interesse, imposta e rendita col taglio cedole), in quanto tale, non produce profitto (perché non estrae plusvalore) ma lo consuma improduttivamente in reddito, ingigantendo la bolla fittizia e dando l’illusione «speculativa» (in chi è vittima della catena Ponzi della finanza strutturata dei derivati) che il denaro «produca» di per sé denaro. Il capitale fittizio è semplicemente capitale che… non c’è (non c’è più perché già svalorizzato, come ad esempio il capitale fisso obsoleto, o non c’è ancora in quanto flusso anticipato e capitalizzato di contante), è falso immaginarlo come capitale che produca profitti e che passa da una parte all’altra. Vano sarebbe immaginare un suo ritorno al «settore» produttivo piuttosto che una svalorizzazione parziale o complessiva periodica del capitale. Calcolare la caduta del saggio di profitto includendo lavoro produttivo e improduttivo occulta di fatto la caduta del saggio di profitto. La presenza pervasiva del capitale fittizio in ogni comparto produttivo mediante questi titoli a garanzia del saccheggio di plusvalore impedisce di vedere nel lungo ciclo alcuna meccanica caduta del saggio di profitto sottostante generato all’in-terno del sistema «puro». I conti non tornano mai e allora balzano coloro che escogitano «correttivi della categorie marxiane». Invece siamo in presenza della contraddizione di fondo del capitalismo tra produzione sociale e appropriazione privata, come vedremo.

Sempre nella realtà, la speculazione c’è in ogni settore produttivo, indipendentemente dall’entità e dal carattere giuridico pubblico o privato della «gestione», siano le ferrovie o i trasporti o l’automobile o la sanità o la telefonia, proprio come l’antenata dell’interesse, l’usura, taglieggiava sia il mercante che il signore. Quello delle privatizzazioni dei servizi pubblici non è altro che un mutamento nella forma giuridica di appropriazione o appalto di flussi di rendita, di interessi o di imposta. La gestione dei servizi telefonici, postali, elettrici, ferroviari o delle entrate tributarie e persino dell’erogazione delle acque, non è altro che una forma di compravendita di rendite più sicure in quanto regolari rispetto agli investimenti in capitale azionario in cui i dividendi sono variabili e aleatori. La privatizzazione, che moltiplica il fenomeno ma non cambia la natura rentier né del capitale né della speculazione stessa, è alimentata dall’ideologia secondo la quale l’introduzione della competizione per questa via ridurrebbe i costi al consumo e migliorerebbe la qualità dei servizi. E questa è la balla più colossale in quanto per l’appunto l’impiego del capitale privato in settori comunque monopolisti è volto esclusivamente a garantirsi i flussi di rendita e di interesse in settori che restano monopolisti anche se gestiti da privati. Ed è per questo che le linee ferroviarie, le poste continuano a non funzionare, come i telefoni a rincarare, e in genere la manutenzione ad essere abbandonata. Questo declino di attività produttive anche di plusvalore deriva proprio dal fatto che il capitale produttivo necessita di un saggio di profitto più alto proprio per il gigantismo assunto dalla concentrazione e dalla centralizzazione e dalla composizione organica che abbassano il saggio di profitto fino al punto da non essere più compensato anche da un alto saggio di plusvalore. In questo modo, diventa più «profittevole» investire in grandi opere (vedi TAV) piuttosto che riparare fognature, curare le strade, ecc. Non è solo un gap del settore produttivo, ma anche di quelli della circolazione e dei servizi. Il capitale nel suo sviluppo ha strutturato persino il territorio a misura di questo processo che ha portato alle conurbazioni moderne che sono diventate lo specchio del suo «mercato» prettamente urbano, ingigantendo per converso le proprie contraddizioni insolubili e determinando quello che da qualche anno si sta manifestando un processo di decomposizione che affosserà comunque il sistema.

Si può osservare che in merito alla descrizione concreta del valore della forza-lavoro, come delle altre merci, non solo non è indifferente il loro valore d’uso ai fini del rilevamento dell’accumulazione e del saggio di profitto, ma è importante considerare questo valore d’uso uscendo dal sistema chiuso della riproduzione semplice e dei due interlocutori fondamentali (capitalista e operaio) ed entrando nel sistema aperto della riproduzione del capitale complessivo sociale, dove Marx dimostra l’insufficienza dell’economia politica classica che, con Ricardo, era approdata alla determinazione del valore in base al tempo di lavoro incorporato o oggettivato nella merce o necessario a produrre quella merce. Nel III libro del Capitale (che, ricordo, fu scritto prima degli altri due), Marx indica infatti che «Il valore di ogni merce … non è determinato dal tempo di lavoro necessario in essa contenuto, ma dal tempo di lavoro socialmente necessario richiesto per la sua riproduzione». Le conseguenze di questa apparente negazione da parte di Marx della sua precedente definizione del valore (tempo di lavoro necessario a produrre la merce) non sono da poco, come vedremo.

Infine è velleitario tentare di dare un quadro delle tendenze dell’accumulazione e del saggio di profitto prendendo a modelli indici statistici ad uso del capitale americano e relativi parametri, senza considerare il capitale sociale complessivo come sistema mondiale aperto, ossia non solo limitato al capitale produttivo della singola azienda ma al fenomeno complessivo del saccheggio ed espropriazione e dell’accumulazione che includa, oltre alle due classi del sistema chiuso del capitale singolo (capitalisti e operai), anche le cosiddette «terze persone», una indagine dunque che richiederebbe di dar conto, a livello mondiale, del rapporto tra lavoro produttivo e improduttivo, come si diceva.

Sarebbe dunque da registrare e studiare a fondo questa chiave per intendere la storia del capitalismo degli ultimi decenni che stiamo vivendo, chiave che risiede nell’espansione dei «valori» cartacei capitalisti mentre la riproduzione sociale complessiva si contrae e il plusvalore estratto non riesce più a sorreggere l’enorme bolla fittizia piramidale, le cui dimensioni determinano non solo il prolungamento dei cicli di capitalizzazioni ormai selvagge e di svalorizzazione ma indirizzano ogni manovra politica a garantire l’esistenza del capitale fittizio anziché a ridurlo (es. salvataggi bancari e fondi salva stato, cose di questi giorni, ma che ci sono sempre, come dimostra il caso di Goldman Sachs). Ma anche la mostruosa compresenza di sfruttamento globalizzato con enormi divari nell’uso schiavista della forza-lavoro. Si pensi a quanto vale il lavoro di un pony (quelli che portano in giro le persone col carrello a piedi) in Cina o quelli che in nord Africa usano l’asino e qualche volta sono proprio loro a portare l’asino sul carretto, tanto è …prezioso. Ma questo capitale fisso, reso obsoleto dai taxi, continua a ad operare…

Pertanto, per focalizzare correttamente in modo aderente alla realtà l’accumulazione e la dinamica del saggio di profitto, credo che occorra uscire dal modello «chiuso» (lavoro salariato e capitale, produzione della singola azienda), che del resto non è mai esistito, ed entrare in quello «aperto» (riproduzione allargata – sia dei termini [C e V] del rapporto che del rapporto stesso – e capitale non più individuale ma totale), nel quale è possibile constatare che la stessa accumulazione è un processo storico permanente e non una partita chiusa per sempre con la rivoluzione industriale inglese, nella protostoria del capitalismo. Se c’è un fertile sviluppo della riflessione marxista di quest’ultimo decennio è proprio quello che in vari modi e con illuminanti risultati ha fornito esempi di analisi sui fenomeni che dimostrano come l’accumulazione originaria che sta alla base dell’avvio di ogni processo capitalista è di fatto un prerequisito permanente del rapporto capitalistico.

In definitiva, spesso non si considera che per Marx il «sistema» capitalistico è per così dire incompleto, ed è in movimento, è un processo che non può essere misurato soltanto sincronicamente (relazione con classi, popolazioni e territori non capitalisti) e non può non essere considerato anche diacronicamente (come transizione dal feudalesimo al socialismo) e dunque è un continuo interagire con popolazioni «fuori» dal sistema chiuso. Marx compie tutto un lavoro di «critica» dell’economia politica e in particolare del «sistema» ricardiano che considerava il capitalismo come sistema chiuso. Questa problematica è stata ripresa sia da Rosa Luxemburg che da H. Grossmann, e da ultimo da Loren Goldner. Alla fine del II e nel III libro del Capitale, redatti, si badi bene, lo ripetiamo, prima del I libro, ma lasciati da «sistemare» (come dice Engels), Marx intende far reagire il sistema chiuso, come strumento euristico, con la realtà «aperta».

In questa realtà aperta, le classi capitaliste hanno delle appendici sociali improduttive (capitalisticamente) e parassitarie che il capitale sussume sotto di sé, anche mediante accumulazione, allo stesso modo in cui mediante accumulazione per espropriazione saccheggia territori non capitalisti o già capitalisti per le sue esigenze finanziarie. Nella società capitalista vi sono lavoratori salariati improduttivi che non producono plusvalore ma lo consumano (es. gli impiegati pubblici) e, nel processo di valorizzazione, essi occupano una relazione diversa da quella dei salariati produttivi. Buona parte dei lavoratori immigrati nelle metropoli occidentali erano contadini e artigiani trasferiti dalla piccola produzione che svolgevano in Africa o in America Latina o altrove, anche tra paesi sviluppati (come la cosiddetta nostra emigrazione dei «cervelli»), e vanno dunque considerati come quota parte del capitale in una forma di accumulazione estorsiva originaria, dal momento che il capitale non paga per la loro riproduzione prima del loro inserimento nel lavoro salariato o dopo la loro espulsione (di solito neppure quando ne fanno parte!).

Ora, se mi metto a calcolare il valore di questa forza-lavoro, da dove saltano fuori e dove vanno a finire i relativi costi di riproduzione? Il valore di una forza lavoro proveniente dal Marocco e che è assunta da un’industria lombarda, non trova un corrispettivo nelle spese di sussistenza e istruzione sostenute in Marocco. Occorre altresì connettere questa permanenza dell’accumulazione alla formazione del capitale fittizio. Quello che, con termine ampio, si può definire come «scambio a livelli non riproduttivi» (più prosaicamente, saccheggio!) si determina sia dentro che fuori del sistema chiuso, con fenomeni di «scambio ineguale» nel commercio internazionale, di mancato rimpiazzo di impianti di capitale fisso obsoleto, di mancata sostituzione di infrastrutture, distruzione dell’ambiente (dissipazione energetica e non riproduzione della natura) e soprattutto nell'abbassamento del livello del salario in rapporto al capitale al di sotto dei livelli di riproduzione della forza-lavoro, nonché nell'abbassamento a valori non d’uso di tutte quelle false merci usa e getta inutilizzabili perché prodotte solo per essere comprate e vendute e non per funzionare e riprodurre valore.

L’insieme di queste operazioni è volto a mantenere elevati i «titoli» capitalisti alla ricchezza comprimendo capitale costante (C) e capitale variabile (V) per garantirsi quanto più plusvalore possibile (PV). Si determina quel fenomeno che Goldner definisce, in maniera forse truculenta ma efficace, auto cannibalizzazione del capitale.

Per sapere se questi fenomeni esistono non serve certo discettare, con letture peraltro anche ortodosse e perfino scolastiche, comunque sempre riduzioniste, del Capitale, o su come la pensa tizio o caio dell’accumulazione e della caduta del saggio di profitto, serve invece verificare se e come tali fenomeni empirici si manifestano nella realtà contemporanea. Stando nei confini di una lettura, ripeto, ortodossa ma riduzionista, del Capitale, ma altresì di varie parti delle Teorie del plusvalore, l’idea che domina delvalore di una singola merce è che esso sia determinato dal «tempo di lavoro in essa incorporato», ovviamente in determinate condizioni storiche che definiamo «socialmente necessarie», e che il lavoro produttivo sia quello che produce plusvalore «per un capitalista», visione, questa, ristretta al modello «chiuso». In questo ambito (modello chiuso), anche la produzione di carri armati, missili e droni produce profitti per singole aziende capitaliste (anche la prostituta di un bordello o l’insegnante di una scuola privata, classici esempi nelle Teorie del plusvalore) e dunque sarebbeproduttiva. Se però passiamo dal modello chiuso e dalla riproduzione semplice alla riproduzione allargata, non più legata al singolo capitale ma al capitale sociale totale, le cose cambiano alquanto. Nell’ambito del capitale sociale complessivo, produttivodiventa quel lavoro che produce qualcosa che è «consumato produttivamente» o in forma di mezzi di produzione aumentati (C+αc) o in forma di lavoro produttivo accresciuto (V+αv), sia nella I sezione (mezzi di produzione) che nella II (beni di consumo). Ma, a questo livello aperto del sistema capitalista in movimento, dove diavolo collochiamo un carro armato, nella I o nella II sezione? E un valore d’uso del capitalista, una Ferrari di ultima generazione, dove lo colloco? E un missile guidato? Quando si fanno calcoli sull’accumulazione e sul saggio di profitto, non è peregrino chiedersi dove collocare missili e carri armati! Non certo nella I sezione! Non sono mica mezzi di produzione, come un veicolo da trasporto. E come farebbe a funzionare come capitale, cioè come riproduzione allargata? Produzione di che cosa allora? Eppure un’enormità di capitali sono stati spesi e dissipati in tutte le zone del mondo in questo modo che non riproduce certo capitale e dunque abbassa e occulta il saggio di profitto come un cane che si morde la coda. E una produzione di beni di consumo come quelli usati dalla caterva di impiegati statali, addetti alla contabilità del capitale, poliziotti, ecc., nella loro forma concreta, nel loro valore d’uso, che cosa è se non una deduzione dal plusvalore complessivo, e dunque non lo accrescono mica!

È in questo ambito del sistema aperto che possiamo comprendere il capitale come cosa viva, come complesso di relazioni di un unico organismo sociale, mentre nel sistema chiuso vediamo gli alberi e non la foresta.