Cos’è, quanto male fa e cosa possiamo fare noi





“Crescita vs Austerity”: questo è il tema che sta monopolizzando il dibattito
pubblico in mezza Europa. In particolare dopo le elezioni greche di maggio e
la salita all’Eliseo di François Hollande, non passa giorno senza assistere
sui media a vere e proprie tenzoni tra economisti e politici dei due diversi
schieramenti. Da una parte coloro che invocano il rigore a tutti i costi,
indicano la Germania come “modello” e avversano il progetto di Eurobond,
dall’altra invece chi chiede politiche maggiormente “espansive”, ritiene il
governo Merkel responsabile del perdurare della crisi europea e vuole una
riforma della BCE. Insomma tra i padroni del vecchio continente è in atto un
vero e proprio scontro che si palesa ad ogni vertice europeo e
internazionale. Ogni “guerra” però ha bisogno di consenso e così, in tutti i
paesi dell’Unione, i vari apparati della propaganda borghese lavorano a pieno
regime mistificando la realtà e tentando di incanalare il malessere sociale verso
nuove forme di nazionalismo.

Infatti, se diamo uno sguardo ai principali quotidiani europei, vediamo che a
noi italiani raccontano che la colpa è dei greci “fannulloni” e dei tedeschi
“troppo ottusi”, in Germania sostengono che il problema non sono solo gli
ellenici ma anche gli italiani tradizionalmente “sfaticati”, e in Francia
invece si fa leva su uno sciovinismo mai del tutto sopito. Ancora una volta
la controparte padronale cerca di governare il conflitto di classe mettendo i
proletari europei gli uni contro gli altri. Intanto le alleanze si fanno e si
disfano: ieri c’era l’asse Parigi-Berlino, poi c’è stato quello Monti-Merkel,
oggi sembrano tutti contro la Germania... Una dinamica effettivamente molto
simile a quella di un conflitto, dove magari i lavoratori non sono chiamati a
combattere, ma a tifare per la patria sì, accettando la malsana idea che
esista una coincidenza tra i propri interessi e quelli dei padroni.

A nostro avviso questa situazione, fatte le debite proporzioni, ricorda molto
quella dei primi vent’anni del secolo scorso e, in particolare, dell’Europa
alla vigilia della Prima Guerra Mondiale: una situazione caratterizzata da un
fronte padronale estremamente diviso e impegnato a combattere al proprio
interno. Ma anche una grande occasione per far emergere le istanze della
classe, che sono sempre più comuni, a patto di non accettare in alcun modo
forme di collaborazionismo con le proprie borghesie nazionali. Pensiamo che
il primo passo per operare in questa direzione sia quello di fare chiarezza
sui reali interessi in gioco e sulle finalità dei singoli attori. È in questo
senso che va il nostro piccolo contributo.
Crescita e austerità non sono vere alternative
Cominciamo con il chiarire che non esiste nessuno scontro tra crescita e
austerità. In sé, quest’espressione non vuol dire assolutamente nulla!
Tutti i padroni vogliono la crescita, crescita dei loro profitti – che,
non dobbiamo mai dimenticarlo, vuol dire crescita del nostro
sfruttamento. Si tratta dunque di una semplificazione giornalistica,
fortemente connotata ideologicamente, utilizzata in Italia e in diversi
paesi europei (ma non in tutti), per promuovere una determinata
posizione. Il vero scontro è tra due differenti modi di governare quella
che viene comunemente definita come la crisi dell’Eurozona.
Questi due approcci si ispirano sostanzialmente a due macrofiloni della dottrina
economica borghese: il keynesismo e il monetarismo. A differenza però di quanto
ci vogliono far credere, non si tratta di un onesto e leale dibattito accademico –
d’altronde di onesto e leale non c’è nulla nel
capitalismo, dove conta solo il raggiungimento, con tutti i mezzi, del
profitto. A guidare le scelte di politica economica degli stati non sono
insomma la presunta giustezza delle idee ma precisi interessi correlati alla
propria strutturazione produttiva e finanziaria. Come vedremo fra poco, non
esistono la “crescita” e l’“austerità” in astratto: il rapporto fra i due
termini è dialettico, cioè ciò che è crescita per uno (per alcune borghesie
nazionali, per esempio quella tedesca), è austerità per gli altri (in questo
caso per la borghesia italiana), e viceversa.
Ma entriamo più nello specifico. Accettando il dualismo propostoci dai media
nostrani, possiamo dire che, al momento, in seguito ad una certa
polarizzazione avutasi negli ultimi mesi all’interno dell’Unione, il
“partito” della crescita è sostenuto in buona parte dai paesi rivieraschi e
ha come suo portavoce il neo presidente francese Hollande. Le istanze di
detto “partito” sono essenzialmente l’adozione di strumenti atti a ridurre
il rendimento dei debiti sovrani, una revisione del mandato della BCE e
l’alleggerimento del Fiscal Compact (cioè di quell'accordo, siglato il 9
dicembre 2011 fra ben 25 paesi europei, che riguarda il bilancio degli Stati
dell’area euro e impone l’obbligo per i paesi con un debito pubblico
superiore al 60% del PIL di rientrare entro tale soglia nel giro di 20 anni,
prevedendo persino sanzioni automatiche per i Paesi che abbiano il deficit
pubblico superiore al PIL anche solo dello 0,5%). Tali richieste, lo ribadiamo,
non sono legate ad un
orientamento ideologico, ma riguardano i nodi cruciali attorno ai
quali si gioca la possibilità, per questi paesi, di attivare percorsi di crescita.
L’elevato costo del debito pubblico
per paesi come Francia, Italia e Spagna ha infatti determinato un aumento della
pressione fiscale oltre ad un forte indebolimento dei bilanci delle proprie
banche, che tendono così a restringere il credito e ad alzare i tassi di
interesse. Contemporaneamente il Fiscal Compact pone freno ad ogni forma di
investimento pubblico rendendo quindi inutilizzabile quello che da sempre è
considerato lo strumento antirecessivo per eccellenza. Infine, lo statuto
stesso della BCE pone non pochi limiti all’azione della Banca Centrale,
impossibilitata ad agire come prestatore di ultima istanza (cioè, a differenza
della Federal Reserve americana, non può finanziare stati e banche quando
questi non riescono a reperire liquidità sul mercato, e quindi non dispone di
strumenti per contrastare gli attacchi speculativi). Infatti la BCE è impegnata
soprattutto nel contenere l’inflazione, inflazione che a sua volta non facilita
l’aumento delle esportazioni e il conseguente miglioramento delle bilance
commerciali dei singoli paesi. Queste sono oggettivamente le ragioni che
penalizzano le economie dei PIIGS (Portogallo, Irlanda, Italia e Spagna), e ora
anche della Francia, rendendole poco competitive e poco attrattive per gli
investimenti.
Il partito dell’austerità o, per meglio dire, dell’altra crescita, coincide
invece con la Germania e pochi altri paesi del Nord Europa. Anche in questo
caso le ragioni sono da ricercare nelle peculiarità dell’economia teutonica
e nel suo modello produttivo. Dal 2000 in poi il congelamento dei salari,
le riforme Hartz, lo smantellamento dello stato sociale e l’introduzione
dell’euro hanno creato condizioni di profittabilità senza pari nel
continente, determinando il cosiddetto “miracolo tedesco”. L’adozione della
moneta unica ha permesso di liberarsi della zavorra di un Marco forte,
rafforzando le esportazioni tedesche, che sono andate a compensare la
diminuzione dei consumi interni dovuti al blocco degli aumenti delle
retribuzioni e ai tagli alla spesa pubblica. Tutto ciò ha permesso un
contenimento della pressione fiscale che ha contribuito, a sua volta e in
modo significativo, alla dinamica positiva della crescita. In queste
condizioni lo stato tedesco ha potuto quindi reperire risorse sul mercato a
tassi estremamente bassi, migliorando sempre più lo stato delle proprie
finanze.
È del tutto evidente che l’adozione delle misure proposte da coloro che si
proclamano fautori della “crescita” avrebbe l’effetto di rallentare
l’economia tedesca minandone i fondamentali. Finanziare il debito pubblico
dei paesi dell’area euro, in tutto o in parte, attraverso l’emissione
degli Eurobond (cioè di buoni di un Tesoro europeo, che possa
redistribuire i costi del debito, “mediando” fra i tassi dei diversi
titoli – ad esempio fra l’1% che ora riconoscono i Bund e il 6% che
riconoscono i Bonos spagnoli o i BTP italiani – e mettendo così fine al
gioco dello spread), significa per paesi come Italia, Spagna e Francia
ridurre il rendimento del proprio debito sovrano mentre per la Germania
vuol dire esattamente il contrario.
Questa misura da sola imporrebbe alla borghesia tedesca ulteriori tagli alla
spesa pubblica e/o un aumento della pressione fiscale oltre a un peggioramento
delle condizioni di accesso al credito. Per questo la Merkel ha puntato tanto
i piedi sul Fiscal Compact. Infatti, soprattutto nell’eventualità che si
arrivi a qualche forma di “Tesoro” comune dei paesi dell’Eurozona, diventa
prioritario per la Germania tutelarsi preventivamente dalle politiche fiscali
operate dagli altri governi, politiche che potrebbero aggravare direttamente
le finanze tedesche. Inoltre, una politica meno rigida della BCE rispetto
all’inflazione non gioverebbe più di tanto alla Germania per quanto concerne
le sue esportazioni (che sono per lo più dirette verso i mercati dell’area
euro), mentre aumenterebbe sensibilmente il costo delle merci importate e
soprattutto di energia e materie prime. Infine, l’aumento dell’inflazione
innescherebbe un sicuro rialzo dei salari, rischio che per ora i paesi
periferici non corrono dato l’elevato tasso di disoccupazione (in Germania
infatti i tassi di disoccupazione sono molto bassi, e quindi i lavoratori
potrebbero avere potere contrattuale e chiedere, di fronte ad un aumento del
costo della vita, aggiustamenti salari, mentre nei PIIGS la fame di lavoro
consentirebbe per un po’ di mantenere gli stessi salari anche nel caso di una
dinamica inflattiva).
In pratica, il “partito” dell’austerità non è nient’altro che una fazione di
capitale che lotta per mantenere il proprio status quo, facendo leva
ideologicamente sull’idea che tutto il resto dei paesi dell’Unione debbano
adottare il “modello tedesco”. D’altra parte, anche il fronte della
“crescita” capitanato da Hollande rappresenta un blocco di borghesia. Un
blocco che con la crisi dell’Eurozona ha perso posizioni e cerca di
ristabilire quelle condizioni necessarie per rimodulare la propria struttura
produttiva e finanziaria. È evidente che entrambi gli schieramenti non
rappresentano in alcun modo l’interesse dei proletari, ai quali viene al
massimo proposto di che morte morire, se di tagli o di bassi salari, se di
disoccupazione o di debiti.
Per questo motivo ora dobbiamo avere lo stesso coraggio che ebbero quei
rivoluzionari che durante la Prima Guerra Mondiale decisero di “non
aderire” e anzi contrastare in ogni modo la guerra fra Stati europei. Per
questo motivo pensiamo sia necessario non schierarsi con questa o quella parte
della classe dominante ma “sabotare” in tutti i modi questo conflitto, riaffermando quelle
che sono le rivendicazioni proprie dei lavoratori, le loro specifiche
istanze. Invece di far accodare i proletariati nazionali agli interessi dei
propri padroni, dobbiamo smascherare questi interessi e cercare per converso
di mettere in evidenza gli elementi accomunanti fra i lavoratori di tutta
Europa. E su quegli elementi costruire le nostre rivendicazioni. Che possono
essere: il rifiuto di pagare il debito, la tassazione dei profitti accumulati
dai padroni e dei patrimoni, il recupero dell’evasione, il lavorare
meno/lavorare tutti, il recupero del salario indiretto attraverso i servizi
sociali…

Lo scenario che ci attende

Pur essendo consci di aver operato delle enormi semplificazioni e di non essere
riusciti a rappresentare l’effettiva complessità della vicenda, pensiamo che
sia questa la cornice in cui leggere l’attuale scontro all’interno della
borghesia del vecchio continente. Una volta descritti sommariamente gli
interessi in gioco ci preme però fare un’ultima riflessione su quello che è lo
stato attuale della crisi dell’Eurozona e la sua possibile evoluzione. Dobbiamo
infatti innanzitutto precisare la metafora fatta in precedenza: più che una
vera e propria guerra, dove si punta alla distruzione totale del nemico, in
Europa si sta disputando un violento incontro di boxe. Un incontro dove ci si
può anche fare molto male (chiedetelo ai greci), ma dove non è prevista la
morte dei contendenti, perché la morte non conviene a nessuno. Fuor di
metafora, la borghesia europea, anche nelle sue divisioni, ha coscienza di
classe, e dei suoi interessi generali. Non sembra quindi disposta a far saltare
il mercato comune: se estremizza le posizioni è solo per creare consenso
rispetto al proprio pubblico nazionale di riferimento. All’orizzonte si
intravvede infatti già un compromesso che possa far avanzare nel complesso la
costruzione di un polo imperialista europeo. Ma vediamo meglio.
La crisi iniziata nel 2007 negli USA e soprattutto i provvedimenti posti in
essere dalle autorità politiche e monetarie statunitensi (pensiamo al TARPS –
programma di salvataggio di banche e aziende che ha spinto verso operazioni
molto aggressive – così come ai quantitative easing, cioè le iniezioni di
liquidità da parte della Federal Reserve), hanno creato le condizioni perché
il capitale finanziario di matrice anglosassone potesse avviare una forte
speculazione sul debito sovrano e più in generale sui corsi azionari europei.
Quest’attività speculativa da parte dei fondi di investimento americani e
britannici ha evidenziato tutti i limiti del polo imperialista europeo.
Ha mostrato la scarsa integrazione tra i capitali del vecchio continente e
l’arretratezza che caratterizza il capitalismo di alcuni paesi (vedi
Grecia, Portogallo e Italia), ha fatto esplodere le bolle immobiliari che
alimentavano alcune economie (Spagna e Irlanda) e, soprattutto, ha
palesato la mancanza di una rigida centralizzazione in materia di politica
economica e fiscale.
Difficilmente le differenti borghesie avrebbero potuto anche solo pensare di
rimediare in tempi brevi a queste carenze, e di fatto l’atteggiamento di
quelle più forti è stato quello di rafforzare le proprie posizioni, nella
prospettiva di sedersi in futuro al tavolo e trattare con rapporti di forza
più favorevoli. Probabilmente il momento di un accordo è vicino e,
prescindendo dalle dichiarazioni altisonanti dei politici, si vedono già dei
segnali in tal senso, come la nuova politica salariale in Germania (sono
stati appena siglati accordi che aumentano del 4,5% il salario dei
metalmeccanici, del 5,4% quello dei bancari, del 6% quello dei lavoratori di
Deutsche Telekom etc) e l’intesa raggiunta sui Project Bond (cioè
obbligazioni finalizzate a specifici investimenti infrastrutturali). Qualche
giorno fa Draghi ha annunciato anche che la BCE fornirà liquidità illimitata
alle banche per tutto il 2012. Certo, tutta questa dinamica non è stata
indolore e priva di rischi per la stessa borghesia continentale, ma pensiamo
che sarebbe illogico e contrario ai suoi interessi procedere verso la
dissoluzione dell’euro. Se saltasse l’euro, salterebbe il mercato comune e
anche il “modello tedesco”: la Germania dovrebbe riconvertire il suo ruolo,
mentre i paesi periferici sarebbero probabilmente destinati ad essere
colonizzati dal punto di vista finanziario, resi terreno di conquista per i
capitali stranieri.
Insomma, da questa difficile situazione la borghesia europea ne uscirà
probabilmente nel medio periodo maggiormente coesa e pronta a sferrare
l’ennesima offensiva su tutto il continente contro la classe
proletaria. Ma proprio per questo motivo dobbiamo sfruttare tutte le
potenzialità del momento. Fintanto che le diverse borghesie litigano,
non possono portare sino in fondo il loro attacco, non possono premere
sull’acceleratore. Si pensi proprio a Monti, il cui Governo contro i
proletari ha fatto molto, anche troppo, ma che dal punto di vista dei
padroni è andato giù ancora “leggero” (in fondo l’articolo 18 non è
stato completamente abolito, altre riforme, come i licenziamenti nel
settore pubblico, non sono state ancora fatte, con la piccola
borghesia – tassisti, professionisti etc – si è venuti in qualche modo
a patti). Da questo punto di vista appaiono estremamente interessanti
le sparate del politologo/aguzzino Luttwak sul fatto che bisogna
essere “più cattivi” e che Monti è stato finora “deludente”.
In conclusione, si tratta di capire che in questa fase e per i prossimi mesi
abbiamo ancora spazi, perché l’attacco dei governi PIIGS non può essere
radicale, pena il minare una già fragile coesione interna, necessaria per
giocare la partita contro le altre borghesie europee (da questo punto di
vista è estremamente interessante che Hollande qualche giorno fa abbia
“migliorato” l’ultima riforma delle pensioni, stupendo gli stessi
sindacati). È quindi in questo momento che dobbiamo costruire le condizioni
per un’ampia mobilitazione. Innanzitutto non facendoci ingannare e
smascherando le retoriche degli “interessi coincidenti”, quindi costruendo
quelle forme di organizzazione che ci permettano, nell’immediato, di
resistere all’attacco padronale e, in futuro, di raggiungere rapporti di
forza adeguati al livello dello scontro. È un compito difficile, ma è
l’unico che merita la nostra concentrazione.

Napoli, 10 giugno 2012


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