Alcune cosucce sull'art 18 e la sua eliminazione



Autore: fabrizio salvatori
Nicolosi (Cgil): "Attacco ad Art. 18 colpisce anche i dipendenti pubblici"


“Alla luce delle discussioni fumose e spesso non fondate su elementi obiettivi che in queste ore investono il tema dell'applicazione dello Statuto dei Lavoratori ai dipendenti pubblici, incluso l'art. 18 e le sue modifiche,  la Cgil ribadisce che si tratta di una diatriba infondata, in quanto, secondo l'art. 51 comma 2 della L. 165/2001, lo Statuto dei lavoratori si applica anche nel settore pubblico”. Lo sostiene Nicola Nicolosi, segretario confederale della Cgil con delega al lavoro pubblico.

La legge del 2001, spiega Nicolosi, non lascia spazio ad interpretazioni.  Ne riportiamo per memoria il contenuto: “La legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni ed integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti”.

“A meno che i testi che il Governo sta predisponendo, o predisporrà – conclude - non contengano esplicite deroghe od esclusioni per il settore pubblico, ciò significa che le modifiche peggiorative all'art. 18 della L. 300/1970 valgono anche per i pubblici dipendenti.  Anche nel pubblico, come per il privato, tale considerazione deve rafforzare le iniziative di contrasto e di lotta che il Comitato Direttivo nazionale della Cgil ha già deciso”.

Autore: Emiliano Brancaccio e Luigi Cavallaro
I dipendenti pubblici rischiano eccome


C’è un convitato di pietra nella vicenda dell’art. 18: si chiama pubblico impiego. Nonostante le smentite, gli auspici e perfino le minacce più o meno velate dei vari protagonisti della trattativa per ora conclusa, quel convitato è ancora lì, ed è destinato a restarci. Vediamo perché. Fino vent’anni fa, il rapporto di lavoro dei pubblici impiegati era regolato dal vecchio testo unico del 1957: praticamente un mondo a parte per diritti, doveri, tutele. Dopo di allora c’è stata la cosiddetta “privatizzazione” e il rapporto di lavoro dei pubblici dipendenti è stato assimilato a quello dei dipendenti privati. Con molte specialità, è vero, ma con una simmetria essenziale. Poiché il testo unico approvato nel 2001 non prevede alcuna disposizione specifica in materia di licenziamenti individuali (gli artt. 33 e 34 dispongono solo in materia di «eccedenze di personale e mobilità collettiva»), l’unica norma che può essere applicata al riguardo risulta implicitamente dall’art. 51 del testo unico: «La legge 20 maggio 1970, n. 300, e successive modificazioni e integrazioni, si applica alle pubbliche amministrazioni a prescindere dal numero dei dipendenti». Tradotto, vuol dire che la sola disposizione che può essere invocata dal pubblico dipendente che sia stato ingiustamente licenziato è l’art. 18, naturalmente con le «successive modificazioni e integrazioni» che dovessero riguardarlo.
Beninteso, può anche darsi che un’espressa deroga per i dipendenti pubblici alla fine di questa tornata salti fuori. Ma è bene non illudersi: anche in quel caso la partita non sarebbe chiusa. Alcuni esponenti del governo sono infatti convinti che la caduta dello spread dei nostri titoli rispetto ai Bund sia imputabile alla “credibilità” della politica di austerity dell’esecutivo. Essi cioè faticano ad ammettere che la temporanea tregua degli spread è stata in realtà provocata dall’inondazione di liquidità decisa dalla Banca centrale europea. Pervasi come sono dalla logica deflazionista della dottrina economica dominante, questi ministri credono che, se lo spread dovesse riprendere la sua corsa al rialzo, per riguadagnare la fiducia dei mercati finanziari non basterebbe una spending review, ma bisognerebbe affrontare l’ostacolo che rende più difficilmente comprimibile il volume totale di spesa pubblica: vale a dire, i dipendenti pubblici. E cosa di meglio, allora, di una “manutenzione” dell’art. 18 che confina il reintegro al solo caso che il giudice accerti che il dipendente non ha commesso il fatto o che per quest’ultimo il contratto collettivo prevede una sanzione conservativa? Cosa di meglio, cioè, della possibilità di una caccia ai “nullafacenti” con la certezza che, quand’anche si fosse sbagliato nella valutazione della gravità dell’inadempimento, si sarà pur sempre ottenuto un definitivo risparmio di spesa?
Può sembrare uno scenario apocalittico. Ma il pubblico impiego dipende dai trasferimenti statali, e non è meno soggetto alle tempeste dei mercati finanziari di quanto non sia il bilancio pubblico nel suo complesso (ne sanno qualcosa gli impiegati greci). Del resto, se appena si ha un’idea di come funziona una banale commissione sanitaria per la verifica delle condizioni degli invalidi civili, si capirà che la prospettiva che maturi una politica di licenziamenti nel settore pubblico è tutt’altro che implausibile. Quando l’imperativo è il risparmio, la persona non importa più. Non per niente si chiama lotta di classe.


Autore: Guido Ambrosino
Il modello tedesco è l’articolo 18


Modello «tedesco», modello «americano»? Grande è la confusione sul regime dei licenziamenti. L’impressione è che la ministra Fornero – che secondo qualche giornale vorrebbe fare una riforma «alla tedesca», persegua piuttosto un modello fai da te, all’amatriciana (con tutto il rispetto per questa ottima ricetta, che richiede gran cura nel combinare pomodoro, cipolla, guanciale e pecorino).
Nessuna delle idee di Fornero su come regolarsi qualora risultino ingiustificati i motivi addotti dal datore di lavoro – lasciare al giudice l’opzione tra indennizzo e reintegrazione se si discute di presunte inadeguatezze «soggettive» del lavoratore, oppure prevedere solo l’indennizzo se le motivazioni vertono su problemi «oggettivi» dell’azienda, di natura economica o organizzativa – vengono praticate in Germania. Farebbero anzi sobbalzare dall’indignazione ogni giudice del lavoro tedesco.
Più legittimamente si riferisce a un «modello tedesco» chi propone la possibilità di patteggiare un indennizzo, come alternativa a uno scontro dall’esito incerto davanti al giudice. In Germania questa possibilità è stata rafforzata nel 2004 dal governo del socialdemocratico Gerhard Schröder, che nel suo cancellierato dal 1998 al 2005 ha flessibilizzato il mercato del lavoro e ridotto le tutele del welfare. Chi, nel partito democratico e dintorni, caldeggia i patteggiamenti, farebbe perciò meglio a parlare di «modello Schröder». Tenendo presente che fu proprio questo modello a causare la sconfitta elettorale del politico socialdemocratico e a consentire la vittoria della democristiana Angela Merkel. Se Bersani vuol fare la stessa fine, si accomodi.
Il richiamo a modelli stranieri serve solo a gettare fumo negli occhi del pubblico, vantando l’una o l’altra rispettabile ascendenza. Un gioco fuorviante, se non si precisano le norme a cui ci si riferisce. Il diritto del lavoro tedesco infatti non è rimasto immutato nel tempo. Dagli anni ’90 è stato più volte manipolato in senso neoliberista, anche se in Germania ci è stato almeno risparmiato di sentir parlare con lingua biforcuta di «manutenzione» quando si smantellava.
Quel che resta in piedi oggi è molto più vicino al regime previsto in Italia dall’articolo 18 dello statuto dei lavoratori di quanto vogliano farci credere Fornero e consorti. Il patteggiamento in Germania è solo un’opzione. Se il lavoratore è convinto di poter dimostrare in tribunale le sue buone ragioni, può sempre impugnare il licenziamento per motivi «soggettivi» o «oggettivi», puntando alla reintegrazione. Se il licenziamento risulta ingiustificato, viene automaticamente dichiarato nullo, e quindi si riconferma nel suo immutato vigore il contratto di lavoro preesistente. Con tanto di penali per il datore di lavoro, e pagamento del salario dovuto per il periodo che va dal licenziamento alla sentenza.
Questa tutela spetta dopo sei mesi dall’inizio del rapporto di lavoro, perché questa è la durata massima per il periodo di prova, non tre anni come vorrebbe Fornero. L’obbligo di reintegrazione scatta per le aziende a partire da 10 dipendenti, non oltre i 15, come adesso in Italia. Il licenziamento va comunicato e motivato dal datore di lavoro alla rappresentanza sindacale aziendale, il Betriebsrat. E se il consiglio aziendale non lo ritiene giustificato, formula un’obiezione scritta, che ha un peso rilevante nel caso si ricorra al giudice. Inoltre, se l’azienda ritiene di dover rinunciare a un lavoratore per motivi di ordine economico o organizzativo, non può licenziare a caso Tizio o Caio, ma solo chi tra i dipendenti ha la minore anzianità di servizio e meno familiari da mantenere.
In Germania, nonostante Schröder, non abbiamo nel 2012 una legge per la libertà di licenziamento, ma una «legge per la tutela dai licenziamenti» (Kündigungsschutzgesetz). La versione originaria del 1951 prevedeva il reintegro del lavoratore, qualora la motivazione adottata dal datore di lavoro non regga all’esame del giudice, in aziende con più di cinque dipendenti.
La prima manipolazione filopadronale risale al governo del democristaino Helmut Kohl, che nel 1996 spostò la soglia a dieci dipendenti. Nel 1999 Schröder, quando Oskar Lafontaine era ancora ministro delle finanze e presidente della Spd, revocò questa controriforma, e tornò a cinque dipendenti. Nel 2004 il cancelliere Schröder ci ripensò, ripristinando la soglia di dieci dipendenti, come a suo tempo disposto da Kohl.
Sempre nel 2004 Schröder introdusse il diritto a un indennizzo (mezza mensilità per ogni anno di durata del rapporto lavorativo) per il lavoratore licenziato per motivi organizzativi o economici, se rinuncia a contestare in tribunale il licenziamento. Si tratta di un incentivo a rinunciare al processo. Ma il diritto di intentarlo, con l’obiettivo della riassunzione, resta intatto.

Autore: Francesco Piccioni
L’epurazione mirata di tre operai Fiom


Difficilmente le motivazioni di una sentenza per una causa di lavoro stuzzicano l’attenzione generale. Quelle con cui i giudici di Potenza hanno spiegato l’ordine di «reintegro sul posto di lavoro» dei tre operai della Fiat-Sata di Melfi, invece, ha tutti i crismi del «caso esemplare». E cade nel pieno di una discussione politica nervosa, spesso apertamente falsificatoria della realtà, ma dalle conseguenze pericolosissime sulla vita di decine di milioni di persone: i lavoratori dipendenti di ogni ordine e grado, con ogni tipo di contratto, precari o stabili, manuali o «immateriali».
I fatti. Il 7 luglio del 2010, in piena inaugurazione del «modello Pomigliano», dentro la fabbrica lucana c’era stato un sciopero spontaneo, di quelli motivati da motivi pratici urgenti: una «linea» che corre troppo, un turno con troppa poca gente, ecc. Lo fanno in tanti operai, iscritti e delegati di diversi sindacati. La discussione con il «capo» che interviene subito è come al solito chiara e da parte operaia – come avviene in Fiat – molto attenta a rispettare i confini oltre cui l’azienda usa far scattare «sanzioni disciplinari». Pochi giorni dopo vengono licenziati in tre:Giovanni Barozzino, Antonio Lamorte e Marco Pignatelli, i primi due delegati Fiom, il terzo soltanto iscritto. La Fiat invoca «motivi disciplinari», diremmo oggi: aver ostacolato il percorso di un carrello robotizzato che avrebbe potuto portare pezzi per gli operai che invece non stavano scioperando.
Ricorso immediato al giudice, che dà loro ragione e ne ordina la riassunzione. Ricorso Fiat, con testimoni che improvvisamente cambiano versione, e temporanea vittoria Fiat. Controricorso Fiom al tribunale di Potenza e, il 23 febbraio scorso, nuova sentenza di «reintegra». Ma la Fiat non li fa tornare al lavoro, pur pagando lo stipendio. Scelta solo politica, non «produttiva», dunque.
Ora i giudici di Potenza spiegano che i tre «non hanno avuto nessun gesto di sfida nei confronti dell’azienda». Di più: «hanno esercitato un diritto costituzionalmente garantito» – quello di sciopero – «senza valicarne i limiti» e insieme ad altri operai, cui però la Fiat «non ha contestato nulla». Conclusione logica: il licenziamento dei tre rappresenta «nulla più che misure adottate per liberarsi di sindacalisti che avevano assunto posizioni di forte antagonismo». Licenziamenti «discriminatori», dunque, con «conseguente immediato pregiudizio per l’azione e la libertà sindacale».
Il problema che questa sentenza è chiarissimo: due anni fa, quando ancora l’art. 18 era un congegno «blindato» di tutela dei lavoratori, la più grande industria italiana ha utilizzato l’unica motivazione per licenziare che le potesse dare qualche chance davanti al giudice: «danno volontario alla produzione», che rientra tra i motivi disciplinari. Tre procedimenti hanno permesso di accertare che quel danno non c’è stato (se non come conseguenza naturale di uno sciopero legittimo) e che quindi la Fiat ha dato una motivazione falsa pur di liberarsi di tre «rompiscatole».
Oggi la Fiat utilizzerebbe i «motivi economici», senza star lì a cercare un casus belli difficilmente dimostrabile in tribunale (come si è visto…). Pagherebbe come indennizzo più o meno quello che ha pagato in stipendi finora e via. Se qualcuno vuol davvero capire perché l’articolo 18 non deve essere modificato, ha qui il migliore degli esempi. Da studiare.