La crisi apre crepe nel fronte occidentale


di Nicola Casale

Prendo spunto dall’articolo di Paolo Giussani “Vizi privati, pubbliche virtù” (settembre 2011) per cercare di fare il punto sulla crisi.

Partire da Giussani è molto utile, perché svolge un’analisi della crisi non impressionistica e critica in modo appropriato due tendenze presenti a sinistra, quella keynesiana (o neo-keynesiana), e quella che fa ruotare tutto intorno a una lettura, spesso superficiale, della “caduta del saggio di profitto”. Due critiche centrate, ma monche in alcuni aspetti essenziali, come, spero, si evincerà dall’insieme di quel che segue.

La premessa dell’articolo di Giussani è dedicata al Marx di Lotte di classe in Francia dal 1848 al 1850, di cui viene sottolineato il parere positivo sul ricorso alla bancarotta dello stato nella Francia di metà ‘800. La citazione è collegata in linea diretta con la conclusione dell’articolo: “Una crisi che voglia essere seria deve imperativamente togliere di mezzo l’indebitamento, portare al fallimento un’enorme quantità di capitale, ridurne il valore contabile complessivo innalzando proporzionalmente il saggio del profitto e, alla fine, spingere più o meno automaticamente i capitali sopravvissuti a riprendere l’accumulazione”.

È bene precisare subito una cosa. La tesi di Giussani non ha nulla da spartire con la tesi deldefault di un singolo stato.

Quest’ultima è avanzata da quanti desiderano liberare l’Italia dai debiti (magari anche con un ritorno alla più competitiva, perché svalutabile a piacimento, liretta) al fine di renderla più concorrenziale sui mercati, magari indirizzando la sua produzione sui prodotti “innovativi” della green economy e dell’high technology. La tesi di Giussani, riguarda, invece, l’insieme del sistema capitalistico ed è una conclusione molto importante, perché delinea con sufficiente enfasi il problema che il sistema nel suo complesso si trova dinanzi. Non siamo in presenza di una crisi contingente, di ordinaria “ristrutturazione”, di una “febbre da crescita”, ma di una crisi che esige scelte drammatiche per lo stesso sistema. Per ulteriore precisione si potrebbe aggiungere che al punto in cui siamo arrivati una riduzione del “valore contabile” del capitale rischia fortemente di non essere una soluzione di lungo periodo se non è accompagnata anche da una distruzione fisica del capitale sovra-accumulato, sia come capitale costante che come capitale variabile.

A cospetto della prorompente esigenza di svalorizzazione, Giussani vede un capitalismo impegnato esclusivamente a evitarla, con la proposizione di una commedia che cerca di occultare la tragedia gettando sull’avanscena personaggi grotteschi, sostanzialmente rappresentati da Merkel, Sarkozy e dalle varie tipologie zoologiche che si alternano alla BCE. È una rappresentazione fedele della realtà?

Non lo è. L’esigenza della svalorizzazione è, al contrario, già in campo. Già agisce e condiziona tutti i soggetti coinvolti: governi, stati, finanza, industria e classi sociali. Condiziona tutti i soggetti, e ne è, a sua volta, condizionata. Nessuna legge e nessuna tendenza del capitalismo può, d’altre parte, affermarsi in modo meccanicistico, ossia slegato dalla lotta tra le classi, come, peraltro, esemplarmente mostrato da Marx anche nel libro citato in premessa. Vediamo come ciò sta avvenendo.

Giussani mette in nota (la 2) un fatto dall’enorme rilevanza, snobbato dai più, ossia che la crisi finanziaria è stata anticipata dalla crisi dell’“economia reale”. È stata questa a scatenare la crisi finanziaria e non viceversa, anche se, in seguito, quella finanziaria ha aggravato le condizioni dell’“economia reale”. Il dato riferito da Giussani spiega la scaturigine della tornata di crisi iniziata nel 2007, ma, da un punto di vista più generale, rimanda a una questione più di fondo sulla natura e la portata della crisi e richiama questioni teorico/pratiche che, tuttavia, saranno qui solo sfiorate.

Egli ha ragione nel notare che la prima reazione alla crisi del 2007-08 è stata di provvedere al sistema finanziario una massa incredibile di mezzi monetari per impedire l’esplosione della bolla. L’iniziativa è stata maggiormente sostenuta dalla Federal Reserve con i pacchetti di Bush e Obama, ufficialmente ammontanti a 1.600 miliardi di dollari, ma realmente pari a dieci volte tanto. Ma anche gli stati europei non sono stati da meno con il salvataggio delle proprie banche a scapito dell’ulteriore aggravio dei debiti pubblici. Queste politiche hanno riportato il settore finanziario a macinare nuovi profitti, ma non sono minimamente riuscite a “rilanciare” la produzione. I capitali ricevuti dagli stati sono stati utilizzati – scrive Giussani – dal settore finanziario per speculare in modo vieppiù violento contro i debiti pubblici degli stati stessi, producendo “l’incredibile risultato” di generare una situazione prossima al default.

Un rischio di default generalizzato non si può, naturalmente, escludere, ma che tutti i soggetti si stiano muovendo allo stesso modo nella stessa direzione non è vero. La speculazione non è stata affatto uniforme contro tutti i debiti pubblici, ma si è particolarmente concentrata contro i debiti pubblici degli stati dell’euro-zona e contro l’euro. Perché?

L’euro (la “creatura” che Giussani ritiene “ridicolmente mostruosa”, non avendo alle spalle una vera banca centrale) è nata come moneta che aspirava effettivamente a fare una seria concorrenza al dollaro. Il motivo della concorrenza non era semplicemente di attrarre capitali monetari e speculativi, ma quello, molto più corposo, di costruire un polo monetario e finanziario europeo in grado di competere con quello americano nell’appropriazione della ricchezza prodotta in tutto il mondo.

La finanza oggi appare soprattutto nella veste demenziale di “denaro che crea denaro”, ma, nella realtà capitalistica moderna, svolge il ruolo fondamentale di centralizzazione dei profitti prodotti in tutti i settori e gli ambiti geografici che gli sono sottoposti. Non c’è più al mondo alcun “produttore” che non ne dipenda per gli anticipi e per i prestiti e che non sia costretto a inseguire i mercati che essa crea, dirige e condiziona. Né, ormai, esiste più “produttore” al mondo che non sia indotto a investire nella finanza i propri profitti, nella certezza di trarne guadagni maggiori di quelli che ne deriverebbero da un loro re-investimento nella produzione. La finanza si appropria, dunque, della parte preponderante del plusvalore prodotto e la moltiplicazione degli utili finanziari si traduce in una parossistica pressione sulla produzione di plusvalore: ne esige la crescita continua in termini di volumi produttivi e di produttività (ossia di saggio del plusvalore).

Quando produzione e produttività hanno iniziato ad andare in affanno (la data va collocata intorno alla seconda metà degli anni ’70), la finanza si è prodotta in alcune performances che hanno avuto il merito (per il capitalismo) di rinviare di decenni l’esplosione di serie crisi. La performance più significativa, tuttavia, non è stata di “creare denaro da denaro”, ma quella di trasformare in profitto qualunque attività umana, sia nelle parti di mondo in cui il capitalismo già vigeva nella sua pienezza, che dove era ancora debole. Un processo di vera e propria “sussunzione reale” da parte del capitalismo di economie pre-capitalistiche e dell’intera vita di ciascuno degli esseri umani viventi in quelle realtà e in quelle pienamente capitalistiche.

Questo processo di sistematica spoliazione ha dirottato in Occidente risorse tali da garantire una “tenuta” dei profitti, assieme a una diffusione del consumo “a credito”, divenuto indispensabile sia per il ceto medio che per il proletariato per cercare di compensare la riduzione dei redditi e dei salari.

Wall Street e (in misura minore, nonché in linea di dipendenza da WS) la City sono stati (e sono) i centri principali di afflusso dei profitti mondialmente prodotti, alla cui spartizione partecipano (in via subordinata) istituzioni finanziarie europee e di altre parti del mondo. Queste ultime, come si sa, sono ammesse in modo diversificato: grandi accoglienze ai capitali dei paesi “amici dell’Occidente”, stretto controllo sui capitali russi o cinesi. Per altri paesi, come Iraq e Libia, si procede direttamente … con l’esproprio.

Con la nascita dell’euro, l’UE si riprometteva di determinare degli equilibri diversi tra le due aree dominanti (anglo-americana ed europea). Maggiore “democrazia” della moneta. Più “democratica” ripartizione tra predoni del bottino dell’usura internazionale.

Per tutta una prima fase l’euro non è stato in grado di sviluppare reale concorrenza al dollaro, essendo la maggiore potenza produttiva e finanziaria europea, la Germania, impegnata nella ri-unificazione (anche se qualche interesse lo aveva già attratto. Saddam progettava, per esempio, un mercato del petrolio in euro anziché in dollari). Successivamente il suo valore ha cominciato a crescere nei confronti del dollaro, e l’investimento in euro a divenire interessante anche per capitali del resto del mondo, con avances esplicite da parte di Cina, Russia, e di altri paesi. Contemporaneamente alla crescita di attenzione per l’euro si manifestavano una serie di spinte a creare mercati monetari un po’ più indipendenti dal dollaro. In qualche caso (America del Sud e Cina) corrispondevano a mercati di beni e servizi in effettivo sviluppo “autonomo”, in altri (l’ipotesi di Gheddafi della moneta africana, il dinaro d’oro) esprimevano il desiderio di costruire mercati “comuni”, a base regionale, un po’ più autonomi dai centri mondiali dell’imperialismo.

Ciascuna di queste tendenze costituiva un problema per il predominio del dollaro (e, di conseguenza, degli Usa come percettore della principale quota dell’usura mondiale), cui gli Usa hanno reagito, caso per caso, riuscendo, per lo più, con le buone o le cattive (più le seconde che le prime), a disinnescare i rischi.

In generale questa politica nord-americana è stata possibile in quanto gli Usa sono la principale potenza militare e finanziaria mondiale, ma, soprattutto, perché sono la potenza fondamentale per garantire la stabilità mondiale, ossia per impedire che da qualunque parte del mondo possa partire qualsiasi seria minaccia allo stato di cose presenti, per garantire, insomma, la permanenza del sistema capitalista e del capitalismo attuale, che vede sottomessi tre/quarti di mondo all’unico quarto costituito da Nord-America, Oceania ed Europa (con la succursale in Asia, Giappone). La dotazione principale a garanzia della stabilità sono le armi e la finanza, ma gli Usa hanno ri-confermato la loro supremazia anche in campo politico, tirando fuori dal cappello di un prestigiatore che sembrava in acuta difficoltà (dopo l’epoca Bush), l’affabulatore Obama. Costui è stato capace di un colpo da maestro. Dinanzi al panico che s’era diffuso nelle cancellerie europee e arabe per le “primavere arabe”, ha reagito riuscendo a controllare i moti di piazza e le “transizioni” in Egitto e Tunisia, e, addirittura, ad approfittare della sua immagine “democratica” per partire alla ri-conquista (a mano armata) dell’Africa (a danno della Cina, e, soprattutto, delle spinte pan-africaniste che Gheddafi coltivava, e con il corollario dell’esproprio di risorse finanziarie e minerarie).

La crisi del 2007-08, tuttavia, ha messo a nudo come gli Usa da principale elemento di stabilità mondiale si stavano trasformando nel principale elemento di instabilità finanziaria. L’attrattiva del dollaro ha iniziato ad arrancare, la concorrenza dell’euro da potenziale è divenuta possibile, in varie parti del mondo si è tornati a chiedersi apertis verbis se non fosse il caso di rendersi un tantino autonomi dal dollaro. La Cina ha apertamente dichiarato di preferire una moneta di scambio mondiale basata sul valore ponderato di varie monete nazionali, tra cui il renmimbi/yuan, del quale ha incrementato l’uso negli scambi nell’area asiatica, ma che propone sempre più diffusamente anche negli scambi con l’Occidente. Si vocifera che persino il famigerato Bilderberg Group si sia interrogato sui possibili scenari di declino del dollaro da moneta predominante negli scambi e nelle riserve (naturalmente al fine di conservare, anche in una tale ipotesi, la predominanza americo/europea, ovviamente, negli stessi ordini e gerarchie attuali).

Alla prima tornata di crisi, comunque, tutti gli stati si sono uniformati alle direttive del governo Usa e della Federal Reserve. Gli attivi delle banche, a rischio di precipitazione per il disvelarsi della tossicità di un gran numero di titoli posseduti, sono stati sostenuti trasferendo una buona parte di tossicità sui pubblici bilanci. La manovra ha sterilizzato le conseguenze finanziarie della crisi, ma si è rivelata inefficace nell’altro, decisivo, compito: rilanciare l’attività di produzione e scambio di merci e servizi. Dopo qualche segnale di timida “ripresa”, la situazione è tornata piatta, e il rischio di recessione mondiale s’è fatto minaccioso.

In assenza di “ripresa” le sorti della finanza tornerebbero a essere nuovamente problematiche, e i rischi, inevitabilmente, si concentrerebbero di nuovo sul dollaro. Di conseguenza, dagli Usa è stata confermata la scelta di proseguire nel sostenere i valori del mercato finanziario continuando a generare debito da parte degli stati e ad emettere moneta da parte delle banche centrali. Ciò consentirebbe agli Usa di conservare il predominio del dollaro e quello finanziario, e, di conseguenza, militare ed economico, ma scaricherebbe sul resto del mondo, e sulla stessa Europa, un costo ancora maggiore per sostenere il gendarme mondiale.

Dall’Europa (in verità, quasi dalla sola Germania) sono, però, emerse opinioni preoccupate circa la prosecuzione della manovra di sostegno ai valori finanziari e, invece, delle proposte tese a ri-dimensionarli.

Lo scontro si è fatto più esplicito con l’attacco, via via più feroce, ai debiti pubblici di alcuni stati europei.

Da parte dei governi Usa e Gb (in perfetta sintonia con Wall Street e City) la richiesta è stata esplicita: la UE e la Bce devono farsi carico dei debiti pubblici degli stati fortemente indebitati (emettendo eurobond o alimentando il “fondo salva-stati”, o sottoponendosi alle cure del FMI), trasformare la Bce in emettitore illimitato di moneta, e adottare delle politiche di QE (quantitave easing, iniettare, cioè, masse di denaro a tasso zero nel sistema bancario) analoghe a quelle di Federal Reserve e Bank of England. Tutto questo, secondo loro, per evitare il crollo di interi stati e dell’euro che si propagherebbero a catena ovunque e per favorire la “ripresa”. La proposta ha riscosso simpatie nei paesi europei con maggiori difficoltà di bilancio che vi vedono la possibilità di sgravarsi di qualche affanno, mentre le resistenze tedesche hanno scatenato un riflusso di partigianesimo anti-tedesco in vari ambienti di sinistra e, curiosamente, anche in ambienti di destra ufficiale e meno.

Il rischio di crollo è reale, ma fa parte di una scommessa che la finanza anglo-americana sta facendo contro l’euro. Chi ha iniziato a svendere titoli del debito pubblico greco, portoghese, spagnolo, italiano sono stati proprio le grandi banche e i fondi di investimento americani e inglesi. Hanno cominciato a farlo nel momento in cui la Merkel ha fatto capire di essere determinata a far partecipare le banche al “default controllato” della Grecia, con una svalutazione di almeno il 50% dei titoli greci nei loro portafogli.

Questa proposta ha un segno inequivocabile: favorire una svalorizzazione di una parte, per quanto limitata, del capitale fittizio. Non era un esplicito attacco al dollaro, ma la proposta di una soluzione di compromesso. Infatti l’UE avrebbe subito i danni maggiori, ma avrebbe, in cambio, preservato l’euro dalla svalutazione che conseguirebbe all’emissione di nuovi debiti o di nuova moneta per sostenere i debiti esistenti. Alla finanza Usa è stato concesso di limitare i danni anche con lo sconto sui credit default swaps (CDS). Queste sono assicurazioni sulla bancarotta degli stati, detenute cospicuamente dalle banche americane (in particolare, Goldman Sachs), che devono intervenire in caso di default per reintegrare ai creditori le somme perse. Per il “default controllato” della Grecia, la Goldman Sachs ha dichiarato di non ritenersi vincolata al pagamento, trattandosi di una “svalutazione volontaria” da parte delle banche (così, infatti, la Merkel l’ha definita).

Anche questo compromesso, però, per la finanza anglo-sassone è apparso inaccettabile e una nuova e più violenta tornata di attacco si è scatenata contro i debiti pubblici europei, cercando di alimentare il panico degli investitori proprio sul fatto che il precedente della penalizzazione delle banche per la Grecia dimostrava l’inaffidabilità di tutti i debiti pubblici europei. All’attacco ha dato indiretto sostegno la Eba (European Bank Authority) che ha deciso di imporre alle banche europee di non contabilizzare i titoli del debito pubblico sulla base del valore nominale, ma di quello di mercato. In questo modo l’attacco ai titoli del debito pubblico per deprimerne il valore, ha la conseguenza di ridurre pesantemente anche gli attivi della banche europee che detengono tali titoli in grande quantità. Al rischio di crisi di interi stati si aggiunge, dunque, il rischio di crollo di banche europee grandi e piccole.

Questo attacco ha due espliciti motivi:
Costringere l’intero apparato produttivo europeo (tedesco in primis) a fungere da garante degli interessi finanziari dei debiti pubblici, ri-alimentando la spirale della finanza speculativa e regalandole una gigantesca ipoteca su un’eventuale ripresa della produzione (che avrebbe in Europa una base molto più solida di quella Usa e inglese);
Indebolire l’euro come concorrente del dollaro in qualità di moneta di riserva e di scambio mondiale.

Difficile pensare che negli Usa/Gb non si comprenda che non si può continuare all’infinito a sostenere i valori fittizi sui mercati finanziari in quanto, prima o poi, una nuova (e più violenta) generale ondata di crisi si ripresenterebbe. L’esigenza di svalorizzazione agisce anche da quelle parti. I problemi che si vogliono risolvere sono, piuttosto, relativi alle conseguenze: chi si accolla gli effetti della svalorizzazione e si troverà, dunque, con capitali indeboliti e rischi di rivolte sociali? Con quale ordine mondiale si esce da una generale svalorizzazione? Dominerà ancora il dollaro o prevarrà l’euro, o, peggio, emergerà una soluzione che ridimensiona il ruolo di entrambi i poli occidentali?

La risposta tedesca a questo piano, pur con le mille cautele di chi sa di non poter complessivamente aspirare a sostituire, né lo vuole, Usa e dollaro nel loro ruolo di stabilità del sistema mondiale capitalistico-imperialistico, è stata, finora, orientata a:
Cercare di evitare l’ipoteca sul proprio apparato produttivo (manovra complessa, sviluppata soprattutto con i rapporti con Cina e Russia per incrementare rapporti industriali e di scambio);
Cercare di evitare (o almeno contenere) l’ulteriore salto verso la finanziarizzazione, e, soprattutto, le conseguenze più devastanti per l’Europa dell’ancor più inevitabile svalorizzazione che ne conseguirebbe.

La Merkel va da due anni timidamente ponendo quest’ultimo obiettivo con le proposte di maggiore regolazione della finanza, tassazione delle transazioni finanziarie, limitazione del potere delle agenzie di rating, partecipazione delle banche alla svalorizzazione dei debiti pubblici, nonché con il tentativo di limitare le “vendite allo scoperto” (uno dei mezzi preferiti dalla speculazione finanziaria per manovrare a proprio vantaggio i valori dei prodotti scambiati nei mercati).

Si può, legittimamente, discutere sulla validità delle proposte, sulla determinazione con cui sono poste, sulla possibilità di realizzazione, ma non si può evitare di prendere atto della diversità di approccio tra i due poli. Entrambi sanno (o, per lo meno, pre-sentono) che una riduzione del “valore contabile” del capitale fittizio sarà, prima o poi, inevitabile. Entrambi sanno che, questa volta, non sarà possibile scaricare interamente le conseguenze della svalorizzazione su altre parti del mondo (come avvenne, tra il ’97 e il 2001, con la crisi asiatica, russa e argentina), anche perché le quantità di capitale da bruciare per un effettivo rilancio dell’“economia reale” sono tali che non possono prescindere dai luoghi in cui sono in prevalenza accumulati. Da queste consapevolezze non emerge, però, una condivisione della soluzione, ma uno scontro sempre meno occultabile. Usa e Gb vorrebbero concentrarne le ricadute sull’Europa, l’Europa (per lo meno, la Germania) vorrebbe una ripartizione un po’ più equa delle riduzioni di “valore contabile”, e vorrebbe anche evitare che in queste riduzioni perisca anche l’euro, con quel che ne conseguirebbe.

Con il vertice europeo del 9 dicembre la strategia tedesca ha segnato un punto a proprio vantaggio. Il quadro generale che ne è uscito è di resistere nel rifiuto di nuovi indebitamenti degli stati e di emissione incontrollata di moneta. La più rigida disciplina fiscale può causare, all’immediato, difficoltà nel ritorno della “crescita”, ma nella visione tedesca potrebbe avere il pregio di ridurre per l’Europa gli effetti di una nuova crisi finanziaria, di preservare la solidità dell’euro, e, ultimo non per importanza, conservare la competitività del proprio apparato produttivo nel caso si riesca a fare qualche passo fuori dalla crisi. Al consolidamento e alla messa in sicurezza dei debiti pubblici, potrebbe, in un secondo momento, seguire anche l’emissione di eurobond e un ruolo più “normale” della Bce quale prestatore di ultima istanza. In aggiunta, sono messe nel conto anche meccanismi di maggiore regolazione dell’anarchia finanziaria, anche se si assicura che non si ricorrerà più alla “partecipazione” delle banche nel caso di default più o meno controllati.

Nonostante quest’ultima garanzia, il piano è piaciuto per niente alla City, Cameron ne ha preso le distanze e il Financial Times ha pronosticato la crisi dell’euro entro Natale. Dagli Usa sono arrivati commenti più misurati, ma si è lasciato intendere che non si rinuncia affatto a insistere affinché la Bce perda la sua mostruosità e si trasformi in una “normale” banca centrale. Dati i soggetti, difficile credere che sosterranno le loro tesi solo con la moral suasion…

Nuovi scontri e nuovi precari compromessi si susseguiranno a causa di una crisi generale irrisolta e irrisolvibile senza un “fallimento di un’enorme quantità di capitale”.

Una seria crepa è, insomma, apparsa nel blocco occidentale e minaccia di approfondirsi. D’altra parte, a ben vedere, la crepa si era già annunciata con lo strappo franco-tedesco nel caso della seconda e definitiva aggressione all’Iraq e con l’astensione tedesca nella risoluzione anti-Gheddafi dell’Onu. A confermare come l’inconciliabilità degli interessi capitalistici nazionali e/o regionali si vada approfondendo con l’esplodere della crisi e si intrecci profondamente con tutte le questioni geo-politiche sul tappeto.

La crepa non è generata da volontà politiche coscienti. Nessuno dei soggetti desidera mettere la parola fine su un duraturo sodalizio che ha distribuito a ognuno dei protagonisti decenni di sviluppo e di crescita dei profitti. Il fatto è, però, che l’esplodere della crisi comporta, inevitabilmente, l’emergere di interessi particolari che rendono insoddisfacenti gli equilibri precedenti. Ciò rende più difficile comporre l’interesse comune (difesa del sistema capitalista e, in esso, del predominio euro-americano) con quelli particolari.

Non siamo già sull’orlo del precipizio verso un nuovo generale conflitto mondiale. Né è possibile fare ragionevoli previsioni su come evolveranno le cose: se verso un ulteriore approfondimento della crepa o verso una sua ri-saldatura, magari sulla prospettiva indicata da Obama (che ammalia alquanto Sarkozy e potrebbe ammaliare i Monti e/o i Napolitano): solida unità nella distruzione creativa del Medio Oriente (Siria e Iran, dopo la riconquista della Libia), accerchiamento della Cina, de-stabilizzazione della Russia, per una completa ri-sottomissione dell’intero mondo e una nuova e più consolidata centralizzazione dei profitti ovunque prodotti verso i centri finanziari americo-europei. Gli elementi che entrano in gioco sono molteplici, come molteplici sono i soggetti internazionali che vi partecipano e ne influenzano l’andamento. Troppi per affrontarli tutti in questa sede.

Ma ci sono due cose che sarebbe utile tenere a mente. La prima è che una distruttiva guerra mondiale è già stata il modo per provocare una profonda svalorizzazione del capitale fittizio accumulato, da cui l’accumulazione capitalistica è ripartita baldanzosa.

La seconda è che anche la guerra del 39-45, catalogata nei libri di storia come guerra delle “democrazie contro le dittature”, scaturì da fatti simili, in modo inquietante, a quelli che si svolgono oggi. Wiston Churchill, per esempio, nel suo libro La seconda guerra mondiale, ne definiva così i prodromi: «Il delitto imperdonabile della Germania prima della Seconda Guerra Mondiale fu il suo tentativo di sganciare la sua economia dal sistema di commercio mondiale, e di costruire un sistema di cambi indipendente di cui la finanza mondiale non poteva più trarre profitto». La Germania di allora non aveva alcuna intenzione di sganciarsi dal sistema del commercio mondiale, ma aveva di sicuro quella di scrollarsi di dosso il tributo che doveva pagare alla finanza mondiale (reso ancora più gravoso dalle “riparazioni di guerra” cui era stata sottoposta a seguito della sconfitta nella prima guerra mondiale).

L’ultimo, e più importante, aspetto. Le soluzioni in contesa hanno il medesimo scopo e si basano sul medesimo soggetto. Lo scopo è di salvare il sistema capitalistico, e di salvarlo nei suoi assetti dati, di predominio mondiale americo-europeo. Il soggetto cui è addossato il salvataggio è il proletariato, l’unica classe in grado di svolgere il vitale ruolo di cedere pluslavoro. Tra le tante cose cambiate nel capitalismo, questa è l’unica rimasta saldamente immutata. Se una variazione c’è stata, non è nella funzione del proletariato, ma nella sua composizione: quantitativamente in crescita esponenziale in tutto il mondo, qualitativamente sempre più diversificato nel rapporto di lavoro e sfruttamento. Tanto la soluzione anglo-americana che quella europea prevedono una spremitura maggiore del lavoro e una riduzione drastica degli accessori sociali del salario. L’oggetto dei loro desideri ha orizzonte mondiale, in quanto la globalizzazione della produzione e, ancora di più, la finanziarizzazione dell’economia hanno rimosso tutti gli ostacoli geografici allo sfruttamento. Ma la crisi sta modificando i rapporti anche con il proletariato domestico, cui si chiede sempre più in sforzo lavorativo e si dà sempre meno in welfare, e sta cominciando a cambiare anche i rapporti con buona parte di “ceto medio”, sospinto verso condizioni proletarie già oggi, e più ancora per le prospettive future dei propri figli.

Ciò determina condizioni nuove sia per la resistenza contro il peggioramento delle condizioni di vita e di lavoro sia per l’emergere di un antagonismo anti-capitalistico. La crisi accelera sia la tendenza ad acuire le forme di sfruttamento più brutale sia la tendenza a mettere a lavoro l’intera vita di ciascuno individuo di una classe che eccede i confini del vecchio proletariato industriale. Lo fa con strumenti (la violenza bruta, accompagnata dalla legge e la finanziarizzazione ai fini del profitto anche della riproduzione della mera sopravvivenza) che mettono a nudo tutti i limiti della concezione e della pratica del riformismo, delle sue vecchie strutture e politiche, ossia del cercare una convivenza con il capitalismo in cambio della partecipazione al suo sviluppo. Un nuovo percorso di lotta, organizzazione e programma può e deve affermarsi (all’interno del quale può anche starci il “rifiuto del debito” come rifiuto della sottomissione della vita al profitto e non come strumento per il rilancio della concorrenza o di un “più sano” mercato). Ma per un approccio più approfondito non si può che rimandare ad un'altra occasione. Qui una sola nota.

Per il proletariato, scegliere tra l’una o l’altra soluzione è come scegliere la corda a cui impiccarsi. In discussione non è la “sovranità dell’Italia”, come alcuni credono paventando le pulsioni da Quarto Reich degli “immodificabili” (così Sarkozy, ed è tutto dire!) tedeschi, o come altri credono per l’attuarsi del disegno imperialistico americano. In discussione sono le sorti di miliardi di uomini la cui vita è totalmente sottomessa al sistema capitalistico, e che, con la sua crisi, peggiora inesorabilmente.

Il riscatto che serve non è quello nazionale, ma quello da un sistema che opprime l’intera umanità, rendendola schiava per produrre profitti per la ristretta classe che ne beneficia e ne gode.

E che è distribuita, sia pur non equamente, in ciascuno dei paesi coinvolti.