Dopo il 15 ottobre. Una storia italiana

 Come era prevedibile gli scontri del 15 ottobre a Roma nella giornata di mobilitazione globale degli indignati hanno scatenato i peggiori istinti giustizialisti e repressivi, mai sopìti del resto in questo paese.
Ma, a differenza dello scorso 14 dicembre nel quale la piazza di studenti, precari, e dell'insieme del "lavoro vivo" ha prova che un nuovo ciclo dei movimenti è nato, il 15 ottobre segna uno spartiacque nell'attività delle realtà sociali e dell'insieme degli indignati, spostando finalità e oggetti della protesta dal piano della denuncia e della visibilità dei conflitti a quello delle pratiche e dell'organizzazione del lavoro cognitivo e delle diverse soggettività che hanno portato in piazza più di 200.000 persone, in una realtà bloccata e degradata quale quella italiana.
Il dato di fatto politicamente rilevante e mediaticamente eclatante di questo 2011 è la protesta mondiale contro il capitalismo della rendita e del debito, protesta che ha nel suo DNA la stratificazione di pratiche e comportamenti non riducibili alla logica duale black bloc/Pacifisti.
Si è conclusa infatti l'epoca dei  controsummitt "per un altro mondo possibile" che, almeno a partire dal 2003 con la guerra in Iraq, mostrava la divaricazione tra un pacifismo organizzato e consapevole e una radicalità dei conflitti disorganizzata, "oltrepolitica", ma altrettanto fremente.
La contrapposizione tra black bloc e "soggetti politici" si è fatta evanescente con la crisi (prima quella dei mutui del 2007, oggi quella del debito sovrano). Con l’approfondirsi del degrado politico, ambientale, sociale in dimensione globale, la "platea" generazionale a cui il neoliberismo ha sotratto il futuro si è estesa a dismisura.
Nell'epoca del capitalismo finanziario, della cattura del tempo di vita, della valorizzazione dei saperi, degli affetti e delle relazioni, vi sono evidentemente differenze nel modo di intendere i conflitti, tra chi, e sono la maggioranza delle realtà che oggi praticano “attivamente” la precarietà, l'Università, i quartieri, resiste all'espropriazione dei beni comuni, e chi vive semplicemente e sempre più tragicamente il deserto delle aspettative, delle speranze, delle carriere o semplicemente cessa di credere ad un pur minimo miglioramento delle condizioni di vita.
Ecco, questa nuova composizione sociale larga, che taglia trasversalmente generazioni precarie, operai, tecnici, studenti, disoccupati, che attraversa disgregandole, identità, soggettività e appartenenze, e che per questo è "non organizzabile", ingestibile, eccedente, deve essere riconosciuta in quanto tale.
Quanto è successo il 15 ottobre non è solo l'eccedenza che si manifesta all'interno di percorsi organizzativi e di espressioni di resistenza all'attuale assetto capitalistico del pianeta; bensì un'esplosione di pratiche e modi di "stare in piazza" e agirla che proviene sia dall'interno che dall'esterno dei percorsi prefissati e della decisione collettiva.
Con questo dato bisogna confrontarsi.
Perché questa inedita composizione sociale, che vede insieme ragazzi che studiano e che vanno allo stadio, figli di "famiglie benestanti" e di famiglie sottoproletarie migranti, gente che si fomenta solo in piazza e che frequenta bingo e sale giochi, sarà sempre più irriducibile alle "buone pratiche"di una o più organizzazioni, come hanno ampiamente dimostrato la portata e la forza dello scontro sociale in Grecia e a Londra quest'estate. Ma allo stesso pone il problema dell'esistenza stessa dei movimenti, compreso quello degli Indignati.
Il fatto che i cosiddetti "facinorosi" armati di sampietrini e bombe carta abbiano tenuto in scacco per un intero pomeriggio polizia, carabinieri e guardia di finanza, preparate alla bisogna con effetti "annuncio" pianificati dai media, ha messo a nudo due dinamiche che si stagliavano in primo piano nella piazza romana.
La prima, quella provocatoria dello stato che, invece di trovare un terreno di composizione e una negoziazione vera della giornata in piazza S. Giovanni, ha aumentato la tensione, anche attraverso la potenza di fuoco dei media di governo e di opposizione. E questo, come si sa è un fatto esclusivamente italiano.
L’aver criminalizzato alcuni e solo alcuni spazi sociali, l’aver sparato ad alzo zero da parte di governo, forze dell’ordine e media contro i cosiddetti “centri sociali antagonisti” ha un preciso significato politico: azzerare l’insieme dei conflitti e le lotte sociali  che si sono espresse nei territori,  in cui è cresciuto un tessuto di condivisione  e una vera e propria “esperienza di vita” in cui si sperimentano relazioni sociali solidali, rivendicazioni di reddito, partecipazione a percorsi di autoformazione e democrazia a KM 0.
La seconda dinamica riguarda l'insieme dei movimenti, compresi i cosiddetti "black", che sono stati il punto di caduta di una rabbia episodica ma quotidiana che è parte del largo schieramento di soggettività a cui Piazza S. Giovanni stava stretta per il percorso che vi aveva portato, per le modalità di confronto tra le varie “anime” del movimento e per un radicale rifiuto di qualsiasi rappresentanza. Ciò non significa che quella composizione, scegliendo lo scontro, fomentato da un Ministro degli Interni quantomeno irresponsabile, sia stata consapevole degli effetti che una giornata di violenze avrebbe prodotto.
Ma le rivendicazioni di chi "non vuole starci" alla devastazioni delle vite delle genti, operate da banche e speculazione, in uno scenario di miseria e precarietà crescenti, di riduzione delle libertà, e dello scippo di futuro che questa crisi strutturale del capitalismo dispiega ogni giorno, non hanno un livello di consapevolezza politica maggiore o minore rispetto a qualcosa di più organizzato -  semplicemente perché l'orizzonte di vita delle generazioni più giovani non è più quello segnato da differenze di classe nettamente definite, ma da una discriminazione netta tra ricchi e poveri, impressa a fuoco sulla pelle fin dalla nascita.
All'indomani del 15 ottobre bene hanno fatto gli indignati, la FIOM, le reti che hanno dato vita al “comitato 15 ottobre” e tutte le realtà sociali che rivendicano il diritto all’insolvenza, nel percorso dello Sciopero Precario,  ad asserire che c'è un problema e ad aprire una discusione generale sulle pratiche, sulle modalità di decisione che provengono da pratiche di inclusione/esclusione e soprattutto sui livelli di libertà sempre più esigui in cui il diritto alla protesta si esprime.
E' questo il nodo che la giornata dell'indignazione ha mostrato e che deve essere risolto, pena la frammentazione e il reciproco revanscismo tra componenti diverse di una realtà alta di contrasto al capitalismo, fino alla scomparsa di quelle reti che hanno determinato la  vittoria dei nuovi sindaci a Milano e Napoli e la vittoria nei referendum del 14 giugno scorso.
Insomma c'è bisogno che si produca un dibattito il più ampio e inclusivo possibile tra tutte, ma proprio tutte, le realtà organizzate e non, facendo una "proposta" anche a chi singolarmente non ha condiviso i contenuti del 15 ottobre e ha istintivamente praticato altre forme di conflitto, diverse sia dallo scontro di piazza che dalla rappresentazione perimetrata di uno spazio pubblico.
Ma c’è anche bisogno che tutti i percorsi di lotta abbandonino la sindrome marginalista e accettino di iniziare una elaborazione del comune e delle sue prospettive, mettendo in campo saperi e prassi alternative, pena la criminalizzazione dell’agire politico.
In questo modo autonomia e indipendenza si declinano insieme, in un lavoro di lunga lena,  che dev’essere un'opera di autoformazione che parli davvero a più generazioni; un'opera di inchiesta, iniziata dagli Indignati, su stili di vita, rabbia, voglia di futuro - che non può essere predeterminato allorché la sua essenza diviene il tempo critico di adesso, e che invece può diventare potenza del tempo a-venire.
Paolo B. Vernaglione
Laboratorio Filosofico "SofiaRoney"