…Ai lavoratori serve un sindacato di lotta e un’alternativa politica


di Marco Veruggio
Il rapporto annuale di Mediobanca sull’andamento di 2mila imprese industriali italiane (circa il 50% del settore) pubblicato prima dell’estate ci dice che l’industria italiana a fine anno dovrebbe aver recuperato i profitti del periodo anteriore alla crisi, ma dal 2009 a oggi l’occupazione si è ridotta del 5,6%, i proventi finanziari sono cresciuti più dell’utile legato alla vendita delle merci prodotte e il 30% del fatturato proviene dagli stabilimenti esteri. Non essendo più possibile la svalutazione competitiva della lira per combattere la crisi le aziende adottano insomma la svalutazione competitiva del lavoro. Ancora Mediobanca certifica che quelle aziende sono finanziariamente abbastanza solide da poter affrontare un aumento del costo del denaro (dall’attuale 5,5% bisognerebbe salire al 9,5% perché gli oneri finanziari diventassero intollerabili). D’altro canto il nostro sistema bancario, grazie alla sua ridotta internazionalizzazione, è meno esposto di altri ai rovesci di una nuova crisi finanziaria, ad esempio meno sensibile di quello tedesco o francese a un possibile defaultdella Grecia. Soltanto una delle 24 banche ‘bocciate’ dagli stress test della European Bank Authority sulla solidità finanziaria delle banche europee è italiana (quelle tedesche ad esempio sono due). Rimane il problema del terzo debito pubblico del mondo (circa il 120% del PIL), ma non si tratta di un fattore assoluto. Se un paese è solido e in grado di garantire i creditori dello Stato un debito alto non è la fine.
Ovviamente la crisi non è un’invenzione, ma chi dipinge l’Italia come un paese già condannato se non taglia la spesa pubblica e non fa le cosiddette ‘riforme’, drammatizza consapevolmente la situazione perché è mosso da precisi interessi. Da una parte è il capitalismo  nazionale e internazionale che chiede alla politica italiana – Governo e opposizione – di aprire  il mercato interno agli investimenti privati ed esteri, riducendo l’intervento statale (taglio della spesa pubblica, privatizzazioni), i salari e i diritti dei lavoratori. Dall’altra alcuni Stati europei – in particolare Germania e Francia – chiedono ‘rigore’ per salvaguardare le proprie economie e mantenere la pace sociale nei propri confini a scapito di altri. E’ vero che l’Italia per il momento non ha dovuto salvare le proprie banche, ma quando siamo chiamati a pagare il nostro ‘contributo di solidarietà’ alla Grecia, in realtà stiamo rinunciando a un pezzo della nostra ricchezza per garantire che lo Stato greco paghi i propri debiti nei confronti dei creditori, in primo luogo le banche tedesche e francesi (e le stesse banche greche). E d’altra parte se nell’ultimo anno e mezzo Germania e Francia hanno conosciuto una limitata ripresa, è perché hanno saputo imporre politiche di carattere recessivo ai propri concorrenti attraverso l’UE. Prendiamo il settore delle costruzioni navali. Merkel e Sarkozy sono intervenuti in modo massiccio a sostegno delle proprie imprese, Sarkozy attraverso una parziale rinazionalizzazione dei Chantiers de l’Atlantique, Merkel attraverso investimenti strutturali in alcuni cantieri. Nel frattempo l’UE chiedeva ai cantieri statali polacchi di Danzica di restituire gli aiuti di Stato ricevuti negli anni precedenti, spingendoli o verso la bancarotta o verso la privatizzazione e la riduzione della produzione. In Italia la sopravvivenza del Gruppo Fincantieri è legata alla possibilità di investimenti strutturali e commesse pubbliche. La richiesta europea di privatizzare le grandi aziende pubbliche e di tagliare la spesa spinge obiettivamente verso il baratro uno dei principali concorrenti per i cantieri francesi e tedeschi.
La manovra Trichet-Napolitano-Tremonti si colloca in modo contraddittorio in questo quadro. In modo contraddittorio, perché da luglio a oggi la discussione sull’articolato è stata il prodotto di spinte e controspinte che riflettono lo scontro tra diversi settori di classe dominante e tra il potere economico, che chiede ai governi di prendere decisioni impopolari e una classe politica che non ha obiezioni ideologiche, ma d’altro canto non vuole finire come in Grecia, dove parlamentari e ministri devono girare in strada con la scorta. Tuttavia, se la singola misura è soggetta al gioco delle schermaglie parlamentari, è l’impostazione generale della manovra che non cambia e che – come ha detto giustamente il segretario della FIOM Landini – è una manovra di classe. Ad essere colpiti – più o meno, attraverso questo o quello strumento – saranno i salari, le pensioni, i servizi pubblici, le detrazioni fiscali per il lavoro dipendente, ciò che rimane dell’intervento pubblico nell’economia, la tutela giuridica dei lavoratori.
La ‘coesione nazionale’ di Napolitano è la copertura ideologica dell’assenza di opposizione alla manovra. I lavoratori devono pagare in nome della patria. La capogruppo del PD al Senato, dopo il voto di luglio dichiarava ‘questo provvedimento – pessimo – passa anche grazie al nostro senso di responsabilità’. Bersani giura che il PD è disposto a fare la propria parte in modo responsabile, cioè a votare la manovra in cambio dell’accettazione di alcuni emendamenti. La stessa CGIL, di fronte a una vera e propria aggressione ai propri iscritti non chiede il ritiro del provvedimento, ma dice che ‘la manovra va cambiata’. Nulla di cui stupirsi. In Gran Bretagna i laburisti, di fronte a un governo che ricorda la Thatcher, si rifiutano di votare contro i tagli e hanno criticato apertamente i sindacati scesi in sciopero il 30 giugno. In questo quadro la sinistra italiana certifica la propria inutilità facendo finta che il problema sia Berlusconi e giocando a fare gli estremisti della domenica. Ferrero lancia la patrimoniale e annuncia fedeltà eterna a un eventuale governo di centrosinistra, che ovviamente non farà alcuna patrimoniale, ma proseguirà ‘con senso di responsabilità’ nel ‘risanamento’. Vendola dice che ci vogliono centro scioperi generali e che ci vuole un Europa politica, ‘a partire da una politica estera e da un esercito comune’.
Ma questa manovra un aspetto ‘positivo’ ce l’ha. Poiché si tratta del più letale atto di guerra di classe degli ultimi decenni essa pone obiettivamente le condizioni per una reazione diffusa. Alcune lotte di carattere generale – il contratto dei metalmeccanici, i tagli alla scuola – e altre di carattere più limitato ma con un impatto di carattere nazionale – la Val di Susa, Fincantieri – e i soggetti protagonisti di queste lotte possono trascinare altri soggetti dietro di sé e unificare la resistenza sociale. In questo quadro la domanda di una ‘sponda politica’ credibile è destinata a emergere e a me sembra che questo sia per il complesso della sinistra di classe un elemento di interesse e l’occasione per abbassare l’età pensionabile dei gruppi dirigenti della sinistra italiana e ricostruire un partito di classe utile a chi lotta.