L'inevitabile impoverimento


Joseph Halevi
L’austerità finanziaria votata dal Parlamento venerdì 15 lu­glio sancisce l'impoverimen­to assoluto, non relativo, cui viene sog­getta là grande maggioranza della po­polazione italiana almeno da quando il passaggio all'euro ha comportato una massiccia redistribuzione del red­dito a favore degli strati più ricchi. L'Italia si situa ormai in una dimensio­ne che va oltre la crisi in corso. Solo un utopistico boom europeo, da anni Sessanta per intenderci, può arrestare l'immiserimento in corso.
Infatti la deindicizzazione totale e parziale delle pensioni non verrà certamente abolita, anche in caso di ripresa; così come non saranno annulla­ti i ticket, né gli slittamenti salariali. Né ver­rà sospesa la moltiplicazione dei tagli a li­vello regionale e comunale, aggravati dal fa­migerato federalismo fiscale. L'ipotesi più concreta è che, come in Grecia, i tagli contribuiranno a perpetrare l'indebitamento rendendolo ancor più pesante.
A partire dalla manovra di Giuliano Ama­to nel 1992, la politica economica dei vari governi in carica si è caratterizzata per l'au­sterità di bilancio. Stando ai dati armonizzati prodotti dall'Ocse, dal 1993 al 2007 il deficit pubblico italiano proveniva interamente dal pagamento degli interessi sul de­bito. Il bilancio primario, cioè senza il com­puto degli interessi, è stato sempre attivo. Ciò ha comportato, fino al 2007, una mar­cata riduzione del deficit in rapporto al pro­dotto interno lordo. Il processo fu facilitato dal calo del tasso di interesse e dalla note­vole performance del'export italiano, gra­zie alla fase della lira debole, al boom consumistico delle tecnologie negli Usa, in Brasile o nell'Argentina.
Dopo il 2000 - e col crollo delle dotcom statunitensi, di Brasile, Argentina e Russia - il deficit pubblico riprese a salire, rimanendo però sui livelli fissati dai criteri di Maastricht. Tra il 2001 ed il 2008 la media annua italiana è stata del 3,1%, contro il 2,2% dell'eurozona. Si noti però che, nel 1993, il deficit di bilancio italiano oltrepas­sava il 10% del Pii ed era quasi il doppio del­la media dei paesi che oggi fanno parte del­l'unione monetaria. Tra i paesi dell'eurozo­na, l'Italia ha quindi subito la maggiore ri­duzione del deficit pubblico senza ottene­re alcun beneficio. Le politiche di distruzio­ne del bilancio hanno quindi contribuito al­le disfunzioni infrastrutturali del paese, al crollo del meridione, all'arroccamento sul­le rendite finanziarie e all'incapacità di af
frontare la rivalutazione del tasso di cambio {connessa all'adozione dell'euro), se non attraverso la deflazione salariale.
Ma la moneta unica ha condotto tutti i paesi membri ad usare la deflazione salariale come criterio di competitivita capitalistica. L'euro ha cementato l'unità del capi­tale nei confronti del lavoro e dei pensionati, permettendogli di dividersi su altre que­stioni, secondarie però ai rapporti di clas­se. L'impatto sulla domanda (deflazione sa­lariale e gara europea sui tagli di bilancio) ha comportato, dal 2001 in poi, una forte ri­duzione nel tasso di crescita dell'eurozona. Il calo italiano è stato però ben maggiore, acuendo il divario con la media della zona. La stagnazione europea e la connessa crisi italiana hanno fatto risalire il deficit pubbli­co, anche perché le esportazioni non han­no contribuito a rilanciare l'economia. In passato, le esportazioni avevano sempre aiutato a «riacciuffare» la dinamica capitali­stica per via della persistente aporia tra svi­luppo interno e domanda estera. Dall'en­trata in vigore dell'euro, però, la domanda reale interna è stata ulteriormente com­pressa dal surplus primario di bilancio e dalla deflazione salariale, mentre i conti esteri sono diventati ancora più negativi.
Malgrado la loro dinamica, le esportazio­ni italiane sono state neutralizzate da alme­no tre fattori: deflazione salariale (soprat­tutto in Germania, che ha compresso la do­manda interna con l'obiettivo programma­to di massimizzare l'export), l'aumento dei prezzi energetici dal 2004, lo spostamento di una fetta notevole della domanda europea verso beni di consumo made in China. Il tutto coronato dalla scomparsa di settori avanzati, come impeccabilmente docu­mentato da Luciano Gallino.
L'Italia era quindi un vaso di coccio pieno di crepe, non di ghiaccio come la torrida Grecia, già prima della crisi del 2008. È in quest'ottica che bisogna capire perché l'obiettivo di pareggiare il bilancio per il 2014 - anticipando la stessa Germania che entrerà in anoressia solo nel 2016 - signifi­ca l'impoverimento assoluto del popolo senza la possibilità di uscire dalla crisi.