di MarcoEramo
È nata una nuova superpotenza. Non è la Cina. Non è neanche uno stato sovrano. Non ha eserciti, eppure ci ha appena dimostrato che è capace di piegare anche la nazione che possiede il più devastante arsenale nucleare. Questa nuova superpotenza è un'agenzia di rating, cioè una ditta privata che valuta il livello di rischio rappresentato dall'investire in un'azione, in una valuta, in un'obbligazione. Più basso il voto (il rating), più alto il rischio e quindi più alta deve essere la remunerazione (il rendimento dei Btp per esempio).
Sapevamo già che il posto di lavoro di un insegnante greco, la pensione di un'infermiera spagnola o il ticket sanitario degli italiani dipendeva dai giudizi di queste agenzie, Moody's o Standard & Poor's (S&P's). Ma dubitavamo che potessero soggiogare anche gli orgogliosi Stati uniti, anche la «nuova Roma». E invece ci sbagliavamo.
Quando venerdì sera S&P's ha declassato il debito statunitense dalla tripla A (AAA) a AA+, un'era si è conclusa. Fino a pochissimi anni fa le agenzie di rating erano considerate, a ragione, il braccio armato del Tesoro statunitense nell'arena dell'economia mondiale. Come tali agirono per esempio durante la crisi messicana (1994), prima e durante quella asiatica (1997). Più di recente assecondarono la politica Usa di lasciare briglia sciolta alla bolla immobiliare Usa, dando voti altissimi non solo ai pacchetti finanziari in cui erano confezionati i mutui subprime, ma anche alla banca Lehman Brothers fino a poco prima che fallisse clamorosamente nel settembre 2008, innescando così la grande crisi.
È nata una nuova superpotenza. Non è la Cina. Non è neanche uno stato sovrano. Non ha eserciti, eppure ci ha appena dimostrato che è capace di piegare anche la nazione che possiede il più devastante arsenale nucleare. Questa nuova superpotenza è un'agenzia di rating, cioè una ditta privata che valuta il livello di rischio rappresentato dall'investire in un'azione, in una valuta, in un'obbligazione. Più basso il voto (il rating), più alto il rischio e quindi più alta deve essere la remunerazione (il rendimento dei Btp per esempio).
Sapevamo già che il posto di lavoro di un insegnante greco, la pensione di un'infermiera spagnola o il ticket sanitario degli italiani dipendeva dai giudizi di queste agenzie, Moody's o Standard & Poor's (S&P's). Ma dubitavamo che potessero soggiogare anche gli orgogliosi Stati uniti, anche la «nuova Roma». E invece ci sbagliavamo.
Quando venerdì sera S&P's ha declassato il debito statunitense dalla tripla A (AAA) a AA+, un'era si è conclusa. Fino a pochissimi anni fa le agenzie di rating erano considerate, a ragione, il braccio armato del Tesoro statunitense nell'arena dell'economia mondiale. Come tali agirono per esempio durante la crisi messicana (1994), prima e durante quella asiatica (1997). Più di recente assecondarono la politica Usa di lasciare briglia sciolta alla bolla immobiliare Usa, dando voti altissimi non solo ai pacchetti finanziari in cui erano confezionati i mutui subprime, ma anche alla banca Lehman Brothers fino a poco prima che fallisse clamorosamente nel settembre 2008, innescando così la grande crisi.
Ma proprio la crisi del 2008 ha liberato le agenzie di rating dalla propria servitù nei confronti del governo Usa, perché ha dimostrato che se rischiano la bancarotta, possono sempre ricorrere ai prestiti federali, possono cioè sempre attingere gratis al denaro dei contribuenti, senza che lo stato sia in grado di chiedere in cambio nulla, neanche che le attività speculative siano regolate almeno un po'. La crisi ha cioè dimostrato che le grandi istituzioni finanziarie sono più forti di Washington; ha esposto alla luce del sole la debolezza della sfera politica nei confronti del capitale. E ora le agenzie di rating dettano legge all'intero mondo occidentale.
Perché le agenzie danno i voti al capitalismo di cui sono parte, e che dovrebbero giudicare in modo «imparziale». Moody's e S&P's sono proprietà di grandi fondi d'investimento: il primo azionista di Moody's, con il 17% delle azioni, è il fondo Berkshire Hathaway con sede a Omaha, di proprietà di Warren Buffett, uomo simbolo e patriarca del capitalismo americano (Berkshire è tra l'altro primo azionista dell'American Express, con il 12,4 % delle azioni, e della Washington Post Company con 25,6%). Il secondo azionista di riferimento di Moody's è il fondo Capital World Investors di Los Angeles fondato dalla famiglia Lovelace, con il 12% delle azioni. Interessante è che Capital World Investors è il maggiore azionista, con il 12% (di partecipazione diretta, senza contare quelle incrociate) nella compagnia Mc Graw Hill che controlla Standard & Poor's: cioè ha i piedi in ambedue le agenzie, in due staffe. Sia Berkshire Hathaway, sia Capital World Investors speculano massicciamente sulle valute che sono sottoposte al rating da parte delle agenzie che loro controllano; è poco giudicarlo un «conflitto d'interessi».
E qui veniamo al versante propriamente politico: quando parliamo di agenzie di rating, sembra sempre che queste agenzie operino da un altrove, numi vigilanti da un altro pianeta. Nel caso del downgrading del debito americano invece, sono i massimi esponenti del capitalismo Usa che danno un voto agli Stati uniti. Con questo gesto squisitamente politico, S&P's e Moody's sono entrate pesantemente nella campagna presidenziale che si concluderà nel novembre prossimo. La motivazione con cui S&P's ha giustificato la sua decisione sembra scritta da un repubblicano del Tea Party. Dopo essere stati salvati dai generosi (gratuiti) sussidi garantiti dalla presidenza Obama, i massimi esponenti del capitalismo Usa, i Buffett e i Lovelace, si sono così schierati contro Obama e con i repubblicani. Anzi, hanno dato un ceffone a Obama proprio il giorno dopo il suo compleanno. Con le dovute forme (hanno atteso che le borse fossero chiuse per il weekend per dare tempo al panico di riassorbirsi), ma pur sempre una sberla.
Ma vi è una dimensione più generale nell'inedito protagonismo delle agenzie di rating. Di mira sono prese insieme le due rive dell'Atlantico. Di mira è preso il capitalismo «all'occidentale», in particolare quel che resta del welfare europeo e rooseveltiano. È come se qualcuno avesse deciso che era ora di dare una spallata finale ai superstiti frammenti di stato sociale, di liquidare le residue proprietà pubbliche. Insomma di buttare nel cesso il compromesso tra capitale e lavoro firmato nel XX secolo. Come se i Buffett e i Lovelace avessero definitivamente abbracciato il «capitalismo alla cinese». I moniti di Pechino sul rientro Usa dal debito rispecchiano infatti quelli di S&P's (e del Tea Party), ma sono di maniera, per non dire insinceri: se gli Stati uniti prendessero davvero misure concrete per ridurre l'indebitamento, le esportazioni cinesi negli Usa crollerebbero all'istante innescando una crisi di sovrapproduzione e lo scoppio di una bolla immobiliare al cui confronto quella cui abbiamo assistito era una bollicina di sapone.
PS. Valentino Parlato mi chiede perché, se le cose stanno così, le agenzie di rating continuano ancora a godere prestigio, nonostante tutte le madornali cantonate che hanno preso. Non ho risposte certe, ma il punto è che non ci sono alternative credibili (l'agenzia di rating cinese Dagong non trova clienti, mentre invece la Fitch Rating, nata da capitale francese, ha sì credito, ma solo perché è divenuta anglosassone). E le alternative non sono credibili a causa di quel che il movimento femminista ha chiamato il «luogo di enunciazione»: se i ratings emanano dal centro del potere capitalistico mondiale, essi sono ammantati dall'autorità del potere che li enuncia. Percepiremo la crisi del capitalismo anglosassone dal discredito delle sue agenzie di rating, non viceversa.