Intervista a Emiliano Brancaccio: di Fabio Sebastiani
La Germania sta riuscendo nel suo tentativo di gerarchizzazione dell’Europa a proprio uso e
consumo, con gravi conseguenze sui più deboli, tra cui l’Italia. Tu l’avevi previsto qualche mese fa...
Non è mai bello ritrovarsi nelle panni delle Cassandre ma questa crisi sta prendendo una piega che alcuni di noi avevano previsto. La vendita dei titoli pubblici italiani da parte di Deutsche bank è uno dei tanti sintomi dello scontro in atto in Europa, tra capitali “forti” e capitali “deboli”. I capitali forti sono dotati di ingenti disponibilità liquide. Essi quindi non hanno fretta, né hanno interesse a fare si che l’Europa affronti i suoi squilibri interni e rilanci l’occupazione. Anzi, proprio sotto la spinta degli interessi capitalistici prevalenti, le cosiddette politiche di “lacrime e sangue” hanno accentuato gli squilibri e depresso ulteriormente i redditi. Se però il reddito continua ad arrancare diventa impossibile rimborsare i debiti, non solo pubblici ma anche
privati. In questa situazione è ovvio che gli speculatori si inseriscano, scommettendo sulle insolvenze e quindi vendendo i titoli dei paesi in difficoltà. In questo modo gli speculatori non si limitano a prevedere il futuro ma contribuiscono a crearlo. Infatti, la vendita di titoli costringe i debitori a rifinanziarsi a tassi di interesse più alti, il che li spinge sempre più rapidamente verso l’insolvenza e tende ad aggravare la crisi.
Siamo insomma di fronte a una tipica spirale deflazionista, nella quale i lavoratori assumono la parte della vittima sacrificale.
Sì, ma come spiegano alcuni esperti che criticano il “manifesto delle parti sociali” c’è pure il
rischio concreto che questo sacrificio serva a poco.
Naturalmente c’è un punto al di là del quale il capitale “mangia sé stesso”. Questa è una lezione marxiana sempre valida. Tuttavia sarebbe ingenuo pensare che senza una presa di posizione del lavoro e delle sue rappresentanze prevalga tra i gruppi egemoni una visione illuminata.
L’Italia è sotto attacco e il Governo ci somministra la minestra riscaldata che la lotta al deficit
pubblico è la priorità. In realtà l’Italia non sta meglio della Grecia...
I paesi periferici sono deboli non semplicemente per un problema di deficit pubblico ma perché le loro strutture produttive risultano perdenti nello scontro competitivo in atto. Un elemento che accomuna questi paesi è la tendenza sistematica ad esportare poco e importare troppo. Quindi, forse più del deficit pubblico, è il deficit commerciale il vero indicatore di fragilità.
Torniamo alla questione del lavoro.
Vedo un terrificante dilemma che attraversa le rappresentanze del lavoro. Comprendo le ottime motivazioni di quegli esponenti della sinistra che pur nelle avversità stanno mantenendo una posizione rigorosamente europeista e quindi insistono nell’invocare una riforma che renda l’Unione monetaria europea capace di uno sviluppo trainato dall’azione pubblica e maggiormente equilibrato sul piano delle ricadute territoriali e sociali.
Sia pure tra mille contraddizioni, nel Partito socialista europeo ed anche nell’attuale segreteria del Partito democratico si avverte una nuova consapevolezza del fatto che l’Europa per essere salvata andrebbe resa più cooperativa e più “sociale”. Il Pd ha addirittura fatto propria una proposta decisamente avanzata, per uno “standard salariale europeo”. Il problema è che questi accenni di politica illuminata sembrano ancora deboli e soprattutto in grave ritardo rispetto al precipitare degli eventi.
Vuoi dire che corriamo il rischio di una deflagrazione mentre timidamente si discute di riforma dell’Unione monetaria?
Il rischio di deflagrazione esiste. i dati attuali segnalano con chiarezza che l’Unione monetaria si è collocata lungo un sentiero non sostenibile. I paesi periferici caratterizzati da bassa crescita e alto disavanzo commerciale percepiscono la moneta unica sempre più come una camicia di forza. La tentazione crescente per questi paesi è di sganciarsi dalla zona euro e deprezzare il debito accumulato. Noi non possiamo dire esattamente quando, ma è certo che se si prosegue di questo passo quella tentazione a un certo punto si tramuterà in atto politico. Per questo motivo credo che i partiti della sinistra, a fianco alla battaglia europeista per la riforma dell’Unione, dovrebbero parallelamente iniziare a porre un interrogativo: “se si esce
dalla zona euro in che termini si deve uscire? Chi deve pagare il prezzo dell’uscita e chi trarne beneficio?”. Se non ci si muove in anticipo il rischio è di ripetere il film del 1992, con costi sociali e per il lavoro ancora più pesanti di allora.
dalla zona euro in che termini si deve uscire? Chi deve pagare il prezzo dell’uscita e chi trarne beneficio?”. Se non ci si muove in anticipo il rischio è di ripetere il film del 1992, con costi sociali e per il lavoro ancora più pesanti di allora.
Ma è la stessa Germania che dovrebbe avere l’interesse a tenere tutto insieme.
Non è detto. In Germania vi è pure chi ritiene che sia meglio abbandonare i paesi deboli a sé stessi. L’idea è che anche fuori dalla zona euro i paesi periferici resteranno comunque sotto l’egemonia tedesca e saranno anche più facilmente “scalabili”. Quindi non diamo per scontato che in Germania prevarrà certamente la linea di difesa della zona euro.
Qual è la tua proposta?
Se a un certo punto l’Italia fosse costretta a uscire dall’euro e svalutare, assisteremo ancora una volta al tentativo di comprimere i salari per fare ricadere il prezzo della svalutazione tutto sulle spalle dei lavoratori.
Esistono però delle alternative. Se davvero arriveremo alla deflagrazione della zona euro occorrerà che qualcuno abbia l’intelligenza politica di rimettere in discussione tutto, compreso il mercato comune europeo. Se ci costringeranno ad uscire dall’euro le sinistre dovrebbero cioè abbandonare il “liberoscambismo” naif che le ha caratterizzate in questi anni, ed avere il coraggio di proporre una riduzione del grado di apertura dei mercati dei capitali e delle merci, orientata a difendere i salari e l’occupazione