Grecia - Il default non è più un tabù




Scritto da Leonardo Mazzei   

L'«impensabile» è ormai oggetto di discussione. Del possibile default - in politicamente corretto finanziario «ristrutturazione del debito» - si parla sempre più spesso. In particolar modo per la Grecia, ma le traiettorie di Irlanda e Portogallo non sembrano troppo dissimili. Ed affiora anche l'ipotesi (sempre per la Grecia) di uscita dall'euro. Ne ha parlato una settimana faDer Spiegel suscitando la «categorica smentita» di Atene. Quel che è certo è che per la Grecia: «La tabella di marcia si è rivelata un libro dei sogni. Per esempio nei primi 4 mesi dell'anno le entrate sono diminuite del 9,2%, non sono cresciute dell'8,5% come era stato auspicato» (Francesco Spini, La Stampa del 12 maggio). 
Di fronte a questa situazione, che pare verrà affrontata dall'UE con un nuovo piano di «aiuti» da 60 miliardi di euro, che vanno ad aggiungersi ai 110 miliardi concessi un anno fa, solo i custodi dell'ortodossia europeista continuano a negare la realtà delle cose. Ha dichiarato Olli Rehn, commissario europeo agli Affari economici, che: «è illusorio pensare che ci sia un piano alternativo per la Grecia». Detto in maniera più chiara: che si facciano sacrifici ancora più duri, che il vincolo di bilancio è l'unico che conta. Ed infatti lo stesso Rehn così chiarisce il suo pensiero: «La Grecia vive ancora al di sopra delle proprie possibilità e dei suoi mezzi. E deve cominciare a guadagnare più di quanto consuma per poter arrivare a pagare gli interessi sul debito». Già, fosse così semplice... Il debito greco vola verso il 160% del Pil, i tassi di interesse crescono, la recessione continua. Insomma, i dogmi dell'Europa fanno acqua da tutte le parti, ed in molti cominciano a dirlo.
Sergio Cesarotto e Lanfranco Turci - due economisti di scuola socialdemocratica, per intenderci - così iniziano un loro articolo sul Melograno Rosso: «A tutti è chiaro che Grecia, Irlanda e forse il Portogallo (i PIG) dovranno fare default sul loro debito estero. La questione aperta non è se, ma quando, come e, soprattutto, chi paga .
Martin Wolf, una sorta di decano dei commentatori finanziari, ha riassunto in questo modo il problema sul Financial Times: «C'è una storia che racconta di un uomo che era stato condannato a morte dal re. Il monarca gli disse però che se avesse insegnato al suo cavallo a parlare nel giro di un anno, avrebbe avuto salva la vita. Il condannato accettò. Quando gli chiesero il motivo, rispose che tutto poteva succedere: il re poteva morire, oppure poteva morire lui, o magari il cavallo avrebbe davvero imparato a parlare. Questo è stato l'approccio dei Paesi dell'euro alla crisi che ha risucchiato nel baratro la Grecia, l'Irlanda e il Portogallo, e che minaccia altri stati membri. (...) Ma rimandare il momento del redde rationem non migliorerà le cose; al contrario, renderà più penosa la ristrutturazione del debito quando sarà il momento». Titolo dell'articolo: «Il lungo viaggio di Eurolandia verso il default».
C'è voluto un anno, ma oggi - lo ripetiamo - l'«impensabile non è più tale. Purtroppo, per ora, la discussione è confinata tra gli specialisti, che il popolo deve ancora credere ai miti dell'Unione Europea. E in questo sforzo di occultamento della realtà, sono proprio le forze della sinistra sistemica del continente quelle che danno il meglio di sé. In Grecia, invece, la questione è ormai entrata nel dibattito quotidiano delle forze che si oppongono alle misure draconiane del governo Papandreu. Per la verità, in termini di consapevolezza, la Grecia è stata un'eccezione fin dall'inizio dello scoppio della crisi dei debiti sovrani, ma ora l'attenzione sull'ipotesi default è talmente forte da non poter più essere occultata neppure dalla stampa rigorista ed ultra-europeista del nostro paese.
Ieri l'altro in Grecia si è svolto il decimo sciopero generale in un anno. Leggiamo come riporta gli umori della manifestazione di Atene il corrispondente del Corriere della Sera, Giuseppe Sarcina:
«Spiros Niacos, un ingegnere elettronico di 31 anni, disoccupato come più della metà dei giovani greci, regge uno striscione "contro i capitalisti" e non ha esitazioni: "L'euro non è più un tabù intoccabile, si può tornare anche alla dracma, se serve a salvare il Paese, per esempio svalutando il debito pubblico che certo non è esploso per colpa della popolazione". E lo stesso concetto ritorna nelle parole di Basil Alexandratos, pensionato di 67 anni; di Yoannes Yajnisis, 47 anni, elettricista nell'azienda di stato dell'energia che il governo vuole privatizzare, o, infine, di Heleni Apanaouti, 45 anni, professoressa di filologia, pure lei senza lavoro, perché la disoccupazione falcia ovunque (il tasso ufficiale è pari al 15%). E' un dubbio che comincia a camminare, con cui fanno i conti anche i manifestanti ancorati comunque alla linea Pasok (euro irrinunciabile). Mela Vana, avvocatessa sulla quarantina, è una di loro, ma riconosce che "solo l'anno scorso un dibattito simile sarebbe stato impensabile"».
Come si vede, questione del debito ed uscita dall'euro sono due temi che si intrecciano, com'è giusto che sia, perché senza sovranità monetaria la sovranità politica è pura utopia. Sta di fatto che la discussione sul binomio euro/debito è ormai iniziata, ed ogni ritardo delle forze anticapitaliste su questi temi diventa sempre più colpevole ed insostenibile.
A questo punto, prima di esaminare le obiezioni che vengono contrapposte alle proposte che abbiamo da tempo avanzato - uscita dall'euro e dall'Unione Europea, azzeramento del debito pubblico - è utile chiedersi quali siano le ragioni della tattica temporeggiatrice dell'Europa. Per usare il linguaggio di Martin Wolf, se i «condannati», i cosiddetti PIIGS, possono sperare di insegnare al cavallo a parlare, per quale motivo anche il monarca (in questo caso la UE) cerca di prendere tempo?
In questo atteggiamento c'è ovviamente una ragione politica - il fallimento di uno Stato della UE suonerebbe infatti come fallimento dell'intera Unione -, ma esiste anche una precisa ragione economica: scaricare l'esposizione della banche (in particolare di quelle francesi, inglesi e tedesche, i cosiddetti FIG) nel Fondo di salvataggio europeo. Il meccanismo è semplice. Ecco come ce lo spiegano Cesarotto e Turci nell'articolo già citato: «Se i PIG fallissero ora, buona parte del loro debito sarebbe ancora in mano alle banche dei FIG. Ma se si aspetta un po', il 2013-14, questo debito si sarà col tempo in gran parte europeizzato. Questo perché man mano che i titoli dei PIG scadono, non potendo essere ricollocati nel mercato, sono acquistati dai fondi europei. A quel punto i FIG avranno convenienza a far fallire quei paesi tanto le perdite (fra un terzo e metà dei crediti) cadranno per lo più sui fondi europei».
Un effetto di questo perverso meccanismo è che i tanto «virtuosi» tedeschi riescono in questo modo a far finanziare le proprie banche da Paesi considerati «cicale» come l'Italia, che contribuiscono in maniera sostanziale ai fondi europei pur avendo un'esposizione dei propri istituti di credito molto più bassa, neppure paragonabile a quella dei FIG.  Sarà bene allora cominciare a dire che certi sacrifici non vanno ad aiutare la Grecia (o l'Irlanda e il Portogallo), ma solo ed esclusivamente il sistema bancario, con al vertice gli istituti dei FIG.
Ecco perché in materia di default - e la cosa riguarda direttamente l'Italia - è giusto dire che la questione aperta non è se, ma quando, come e, soprattutto, chi paga.
Dicevamo delle obiezioni che vengono avanzate rispetto alle posizioni da noi espresse. Obiezioni che in realtà si riducono ad una: l'azzeramento del debito pubblico, così come l'uscita dall'euro, è semplicemente impossibile. In questo modo ogni discussione è troncata all'origine: che senso ha discutere di qualcosa che si dà comunque per irrealizzabile?
Abbiamo fin qui dimostrato come invece questi temi non siano più un tabù, perlomeno nei Paesi maggiormente investiti dallo tsunami del debito sovrano. E se anche tra i guru della finanza se ne discute quotidianamente, ciò vuol dire che la questione non è la realizzabilità del default, ma appunto la sua gestione, che in nessun caso potrà essere «neutrale».
L'Italia è notoriamente uno dei paesi più a rischio. Rispetto agli altri PIIGS ha dalla sua una struttura industriale più forte, un sistema bancario apparentemente meno esposto alle tempeste finanziarie, un minor indebitamento privato; ma contro la sostenibilità dei conti italiani gioca l'enorme importo complessivo del debito (circa 1900 miliardi di euro), di fronte al quale nessun piano di salvataggio europeo sarebbe possibile nel momento in cui la speculazione spingesse decisamente verso l'alto i tassi sui bond del Tesoro. Tassi che sono già in crescita, ma che (come insegnano appunto i casi di Grecia, Irlanda e Portogallo) potrebbero facilmente mettersi a correre all'impazzata sotto i colpi della speculazione, magari alimentata da qualche declassamento di quelle agenzie di rating possedute proprio dai più importanti speculatori finanziari - è il caso della ben nota Moody's, di proprietà al 19,1% dell'altrettanto noto miliardario (ed ovviamente molto attivo nella speculazione) Warren Buffet.
Di fronte alla concreta possibilità che l'Italia finisca per seguire il percorso degli altri PIIGS, è impressionante il silenzio della politica nazionale, in tutt'altre faccende affaccendata, ma comunque muta in tutte le sue componenti rispetto ai diktat dell'Ue e della Bce.
Proprio questa mattina, sul Manifesto, Marco d'Eramo, riferendosi alle misure draconiane imposte alla Grecia, osserva che: «Vi è anche un problema di sinistra europea. Ancor più della tracotanza teutonica, colpisce l'indifferenza con cui le varie sinistre europee hanno accolto questo esercizio di dispotismo finanziario. Come se la faccenda non riguardasse noi italiani...». Ben detto, ma questa indifferenza è la conseguenza diretta dell'accettazione del dogma europeista.
Se questo dogma non verrà messo in discussione, se si continuerà a pensare all'azzerramento del debito come ad un'ipotesi assurda, non ci sarà altro da fare che accettare tutti i sacrifici che i sacerdoti europei riterranno necessari. Dunque, o cominciamo a pensare concretamente l'«impensabile», o bisognerà adeguarsi ad un autentico macello sociale. Tertium non datur.
I tempi, del resto, non consentono eccessivi attendismi. Ed abbiamo già visto, nel caso greco, come il tempo giochi a favore delle banche e contro i popoli. Sì, perché al danno potrebbe aggiungersi la beffa, cioè un bel default mandato in porto solo dopo aver tagliato tutto il tagliabile e privatizzato tutto il privatizzabile. Da un simile default la società ne uscirebbe devastata, senza più alcuno strumento per orientare l'economia, con una politica ancor più ridotta alla mera amministrazione degli effetti del disastro compiuto.
Sarà possibile evitare questo selvaggio «tutti contro tutti»? Sì, ma solo ad una condizione: che si cominci a pensare l'«impensabile» di una rivoluzione democratica che spazzi via le attuali classi dirigenti nella politica come nell'economia. E' questa la condizione imprescindibile per gestire un azzeramento del debito, deciso per tempo ed orientato agli interessi popolari nel quadro di una riconquistata sovranità nazionale.
Utopia? Può darsi, ma sempre meno utopica dell'idea di poter difendere diritti, condizioni di vita e di lavoro galleggiando nell'attuale situazione di totale dipendenza dal mostro oligarchico chiamato Europa.
Chi vivrà, vedrà. Ma intanto la Grecia ci dice che azzeramento del debito ed uscita dall'euro non sono più un tabù. E' già qualcosa.