di Edward Goldsmith. Lo sviluppo economico, nonostante i suoi devastanti effetti sulle società e l’ambiente, resta il principale obiettivo delle agenzie internazionali, dei governi nazionali e delle corporazioni transnazionali che sono naturalmente i suoi principali sostenitori e beneficiari. Ciò viene giustificato col fatto che solo lo sviluppo, e ovviamente il libero commercio globale che alimenta, può sradicare la povertà. Oggi quasi nessuno di coloro che occupano posizioni di comando sembra disposto a mettere in discussione questa tesi, sebbene non sia sostenuta da prove teoriche né empiriche, né serie. Tanto per cominciare, si consideri che poco dopo la Seconda Guerra Mondiale, quando il commercio mondiale e lo sviluppo economico erano davvero in atto, quello è aumentato di diciannove volte e questo non meno di sei volte – una performance senza precedenti. Appare evidente che se questi processi fornissero veramente la risposta alla povertà mondiale, allora questa dovrebbe ormai essere stata ridotta a poco più di un vago ricordo del nostro barbarico e sottosviluppato passato. Invece, è vero il contrario. In Indonesia, la povertà è aumentata del 50% dal 1997, nella Corea del Sud è raddoppiata durante lo stesso periodo, in Russia è cresciuta dal 2,9% al 32,7% solo tra il 1966 e il 1998. Come nota l’International Labour Organization (ILO) nel suo “Rapporto 2000”, praticamente la stessa cosa è successa dappertutto, in Sud America come ai Caraibi. Ciò che soprattutto colpisce è che, secondo l’ILO, la percentuale di reddito globale percepito dal 20% più povero della popolazione tra gli anni dal 1960 al 1977 è diminuita dal 2,3% all’1%, ossia di più della metà, mentre solo negli ultimi cinque anni il numero di persone che vivono in condizioni di povertà estrema nel mondo è aumentato di 200 milioni, principalmente nell’Africa sub-sahariana, in Asia centrale, nell’Europa dell’Est e nel sud-est dell’Asia. La povertà è aumentata in modo più impressionante anche nel ricco mondo industriale, dove il tasso di disoccupazione tra il 1997 e il 1998 è più che raddoppiato, crescendo dal 2,8% al 6,3% per gli uomini e dal 3,2% al 7,4% per le donne. Significativamente, la disoccupazione a lungo termine, definita come disoccupazione che dura uno o più anni, è salita in molti paesi molto più rapidamente della disoccupazione totale. In Svezia, ad esempio, è cresciuta dal 5,5% della disoccupazione totale nel 1980 al 20,6% nel 1997 (4). Secondo John Carvel, responsabile degli affari sociali di The Guardian, 37 milioni di persone sono attualmente disoccupate nei ricchi paesi industriali, 100 milioni sono senza tetto e quasi 200 milioni hanno una speranza di vita di meno di 60 anni. Persino nel Regno Unito, paese che ha inventato l’industria e dominato la scena economica per decenni, il numero di adulti in famiglie con meno di metà del reddito medio (che è l’indice di povertà preferito oggi in quel paese) – è aumentato di un milione sopra il livello agli inizi degli anni Novanta e il numero è ora più che raddoppiato rispetto agli inizi degli anni Ottanta. Per gente ragionevole questi fatti dovrebbero essere abbastanza per screditare la tesi che lo sviluppo fornisce i mezzi, e tanto meno i soli mezzi, per sradicare la povertà. Ma per i sostenitori dello sviluppo ciò ovviamente indica semplicemente che lo sviluppo non ha proceduto abbastanza in fretta. Essi sono semplicemente incapaci psicologicamente di mettere in discussione quello che è il fondamentale principio della religione secolare di oggi. Vinod Thomas, vicepresidente per il settore Education della Banca Mondiale afferma che “per invertire questa tendenza economica lo sviluppo è cruciale”. Presenta come modello il sud-est dell’Asia: “Se l’Africa sub-sahariana avesse seguito quel modello nei tre passati decenni, lo standard di vita sarebbe quadruplicato invece di stare ancora appena in piedi, e la povertà sarebbe diminuita, non aumentata”. Naturalmente non dice che nel sud-est dell’Asia anche la povertà è aumentata durante lo stesso periodo e che solo l’élite ha beneficiato, d’altronde temporaneamente, di un boom economico che era poco più di una bolla, peraltro già sgonfiata. È significativo che la povertà non sia vista come un problema isolato, ma come la causa di tutti gli altri nostri problemi. Così, la Food and Agricultural Organization delle Nazioni Unite (FAO) insiste nel sostenere che se la gente ha fame è perché è povera e non può permettersi di comprare il cibo di cui ha bisogno, mentre l'Organizzazione mondiale della sanità (WHO) ci assicura altresì che se la gente si ammala e muore giovane è perché è povera e non può permettersi le medicine che la guarirebbe. La risposta sia alla fame che alla malattia è perciò lo sradicamento della povertà, e dunque più sviluppo. Così la povertà è equiparata al “sottosviluppo”, il che vuol dire che, per definizione, solo lo sviluppo può sradicarla. Nelle condizioni economiche in cui viviamo oggi, questo è probabilmente vero, ma quello che dobbiamo capire è che, definendo in questo modo la povertà, in termini puramente monetari, presupponiamo che il denaro è sempre stato, e sempre deve essere, un requisito - come più chiaramente è oggi - per soddisfare i bisogni reali. Se crediamo questo, comunque, è perché siamo abituati a guardare i crescenti problemi con i quali oggi ci confrontiamo interamente alla luce delle breve e totalmente aberrante esperienza della società industriale in cui viviamo, che ci hanno insegnato a considerare come la norma. Cos’è allora lo sviluppo? Perché crea povertà? Ciò che tendiamo a dimenticare è che nelle famiglie e comunità tradizionali, nelle quali abbiamo vissuto per forse il 95% del nostro soggiorno su questo pianeta, si progettavano villaggi, si costruivano case, il cibo veniva prodotto, preparato e distribuito, i bambini erano allevati ed istruiti, ci si prendeva cura di vecchi e malati, si organizzavano e celebravano cerimonie religiose, si svolgevano funzioni di governo – e tutto questo in forma completamente gratuita. Ciò era possibile, come ha notato il grande storico dell’economia Karl Polany, perché in tali società “l’economia era incastrata in relazioni sociali”. Tutte le funzioni che oggi considereremmo economiche erano compiute per ragioni sociali piuttosto che economiche, principalmente per soddisfare relazioni di parentela e ottenere prestigio sociale. Lo sviluppo cambia tutto questo, implicando soprattutto il graduale scioglimento dal loro contesto sociale di tutte quelle funzioni prima svolte gratuitamente, la loro monetizzazione e il loro assorbimento da parte dello stato e delle corporazioni. Ci è stato insegnato a vedere questo processo come uno degli accettabili costi del progresso, e per questo pochi sembrano aver considerato le sue reali implicazioni. La prima è che si può predire in anticipo che un ampio settore della società non sarà semplicemente capace di acquistare il denaro per pagare il cibo, la casa e le altre necessità di vita, che sono state monetizzate e che prima erano ottenute gratuitamente attraverso il normale funzionamento di famiglie e comunità. Per questa semplice ragione, lo sviluppo può solo creare un grande numero di poveri e disgraziati, e il loro numero può solo crescere con l’avanzare dello sviluppo, ancor di più diventando quest’ultimo globalizzato. Ovviamente, siamo stati addestrati a credere che i popoli preindustriali, che vivevano in economie non monetarie, erano poveri – ma questo è semplicemente falso. Questi popoli avevano una vita culturale e cerimoniale ricca, e nel complesso vivevano in un ambiente relativamente non guastato. Di solito, erano anche ben nutriti e in perfetta salute – fino a quando i loro modelli culturali furono scombussolati dalla colonizzazione e più tardi dallo sviluppo economico, e il loro ambiente naturale distrutto. I primi viaggiatori in terre lontane avevano sempre notato quanto in buona salute e ben nutriti fossero i popoli tradizionali da essi visitati. Così, Mungo Park, nel suo Travels in Africa, ci dice che il fiume Gambia abbonda di pesci e che la natura “con mano generosa” ha dato agli abitanti della zona “le benedizioni della fertilità e dell’abbondanza” . Poncet e Brevedent, due viaggiatori francesi dell’Ottocento, notarono che l’area di Gezira, in Sudan, ora occupata da erosi campi di cotone, era un tempo coperta di foreste e “piante fruttifere e ben coltivate”, e che era chiamata Terra di Dio (Belad-Allah) “per la sua grande abbondanza”. Ne vi è ragione di supporre che gli aborigeni australiani, oggi considerati i più poveri tra i poveri, fossero sempre a corto di cibo. Sir George Grey, governatore generale della Nuova Zelanda nella prima metà del XIX secolo, ha trascorso molto tempo in mezzo a loro e ha sostenuto di aver sempre trovato la più grande abbondanza nei loro rifugi. Molti moderni antropologi hanno notato quanto fossero in buona salute e ben nutriti i popoli tribali, con cui vivevano, e come la loro alimentazione e il loro stato di salute si deteriorassero non appena adottavano lo stile di vita dei loro colonizzatori. R.R. Thaman dell’University of the South Pacific, ad esempio, osserva che prima del contatto con gli europei, gli abitanti della Melanesia, Polinesia e Micronesia, avevano generalmente abbondanti risorse di cibo, ed erano quasi universalmente riconosciuti per essere popoli dal superiore tipo fisico, robusti e in buona salute. Anche quegli atolli e isole calcaree coralline dove il cibo era relativamente scarso “avevano frutti degli alberi del pane, noci di cocco, pandano, spesso taro, una varietà di piante selvatiche commestibili e ricche risorse marine. Gli ultimi anni, comunque, hanno visto un drammatico deterioramento della salute degli abitanti delle isole del Pacifico. La crescente tendenza verso un’alimentazione in stile occidentale ha portato con sé un aumento nell’incidenza delle cosiddette malattie della civiltà, in particolare malattie cardiache, carie e diabeti – malattie quasi sconosciute pochi decenni fa. In Micronesia il numero di persone curate per malattie cardiache nei locali ospedali è triplicato tra il 1958 e il 1972 – un incremento spiegabile con i cambiamenti nell’alimentazione e lo stress della vita moderna”. Innumerevoli altri studi nelle isole del Pacifico e in ogni altra parte del mondo dipingono lo stesso quadro. In altri termini, i popoli tribali e gli altri popoli tradizionali non avevano bisogno di sviluppo economico e del denaro che esso fornisce per essere in buona salute e ben nutriti. Molto significativamente, l’edizione 2001 del World Development Indicators (WDI) della Banca mondiale mostra Cuba – il solo paese in via di sviluppo, ad eccezione della Corea del Nord, che dal 1960 non ha ricevuto prestiti della Banca mondiale, e che ha avuto una crescita economica “anemica”, in testa a tutti gli altri paesi poveri nelle statistiche relative alla salute e all’istruzione. Persino Joe Ritzen, vice presidente per la politica di sviluppo della Banca Mondiale, non può evitare di restare impressionato. Egli nota che il sistema cubano “è estremamente produttivo nei settori sociali”, ma non può non osservare criticamente che esso non dà alla gente occasioni di prosperità. Ma gli si potrebbe chiedere, quale uso si fa della prosperità, se ha “un effetto negativo nei settori sociali”?. Ciò che è importante è che questi popoli preindustriali non si sentivano poveri. Quando Laurens van der Post volle fare un regalo agli amici boscimani presso i quali aveva soggiornato, come segno della sua gratitudine per la loro ospitalità, semplicemente non sapeva cosa dare loro. Eravamo umiliati dalla consapevolezza di quanto poco potessimo dare ai boscimani. Quasi ogni cosa, probabilmente, sembrava rendere loro la vita più difficile, aumentando i rifiuti e il peso della loro routine quotidiana. Non possedevano praticamente beni: una cinghia, una coperta e una cartella di cuoio. Non c’è niente che non potessero assemblare in un minuto, riporre nelle loro ceste e trasportare sulle loro spalle per un viaggio di mille miglia. Non avevano il senso del possesso. Etichettarli come completamente poveri equivale a non cogliere l’essenziale, per i boscimani, che vivevano nel loro ambiente naturale, e non si sentivano in alcun modo sventurati per la loro mancanza di beni materiali. Helena Norberg-Hodge, che ha trascorso molto del suo tempo durante gli ultimi trent’anni in Ladakh, una società tibetana sull’Himalaia che politicamente appartiene dell’India, e che fino ad epoca recente era in gran parte isolata dal mondo esterno, è pienamente d’accordo. Quando per la prima volta si recò in Ladakh, alla metà degli anni Cinquanta, racconta come un giovane ladakho le fece visitare il suo lontano villaggio chiamato Hemis Shukpachan. Ella rimase impressionata dalla bellezza e spaziosità delle case. “Ma dove vivono i poveri?” chiese. Egli restò sbalordito da questa domanda. Quando spiegò cosa intendeva per povero, egli scosse la testa e rispose: “Non abbiamo nessuno così”. Oggi, tutto è cambiato. I ladakhi si affollano intorno ai turisti chiedendo denaro – “siamo così poveri in Ladakh”, dicono loro pietosamente. Essi infatti sono stati ridotti in povertà dal recente sviluppo economico che ha già devastato la loro società e il loro ambiente naturale e creato i molti nuovi e artificiali “bisogni” che, per la maggior parte della gente, non potranno mai presumibilmente essere soddisfatti. Essi erano differenti persino alla corte degli imperatori cinesi della dinastia Manciù, prima che quel paese subisse l’influenza occidentale. Così, l’imperatore Ch’ien Lung non fu minimamente impressionato dai manufatti regalatigli dall’emissario britannico di re Giorgio III, che cercava di stabilire rapporti diplomatici con il suo paese. Rigettò la richiesta britannica e spedì una lettera a re Giorgio che si concludeva con le seguenti parole: Dominando il vasto mondo, mi prefiggo di mantenere una perfetta amministrazione e di soddisfare le funzioni statali. Oggetti strani e costosi non mi interessano… Come il vostro stesso ambasciatore può vedere, abbiamo ogni genere di cose. Io non do valore a oggetti strani o ingegnosi, e non intendo usare i manufatti del vostro paese. Questo atteggiamento non potrebbe esserci più estraneo. Il nostro appetito di beni materiali e congegni tecnologici sembra insaziabile. Infatti, la nostra ricchezza e il nostro benessere sono normalmente valutati sulla base del nostro accesso ad essi. È senza alcun dubbio vero che oggi abbiamo bisogno di molti beni materiali e apparecchi tecnologici, ma non perché ne abbiamo un’intrinseca necessità, bensì perché, nelle aberranti condizioni nelle quali viviamo, molti sono richiesti allo scopo di soddisfare necessità biologiche, sociali, spirituali ed estetiche che in normali condizioni erano una volta soddisfatte gratuitamente. Nessuna parola per indicare la povertà Serge Latouche, che ha a lungo lavorato tra i quartieri poveri rapidamente sviluppati delle città dell’Africa occidentale, ci racconta, nel suo istruttivo libro L’altra Africa, che nelle principali lingue africane addirittura non c’è una parola per povertà, almeno nel senso economico del termine, che egli vede come un’invenzione occidentale. Le più vicine sono le parole che indicano un “orfano”. Marshall Salins fa la stessa osservazione nel suo citatissimo saggio The Original Affluent Society. I popoli più primitivi del mondo possiedono pochi beni, ma non sono poveri. Povertà non significa avere pochi beni, né è propriamente una relazione tra mezzi e fini; è soprattutto una relazione tra persone. La povertà è uno stato sociale. Come tale, è un’invenzione della civiltà”. In questo senso, la povertà non è associata a una mancanza di denaro, ma piuttosto all’assenza di un rapporto sociale. Per Latouche, la vera idea di povertà è concepibile solo in una società individualistica, come quella che lo sviluppo necessariamente provoca. Si riferisce soprattutto all’impotenza del sociale isolato. “In una società non-individualistica”, ci dice Latouche, “il gruppo nell’insieme non è né ricco né povero”. Julius Nyerere diceva grosso modo la stessa cosa. Per lui, “in una società africana… nessuno soffriva la fame, o di cibo o di dignità umana, perché privo di ricchezza personale; ciascuno dipendeva dalla ricchezza posseduta dalla comunità della quale era membro. Molti di coloro che nel mondo moderno sono economicamente poveri sono anche quelli che hanno un sostegno familiare minimo. Si può includere in quest’ambito il crescente numero di anziani in gran parte abbandonati dalle loro famiglie e dipendenti da una miserabile pensione statale appena sufficiente per sopravvivere. Possiamo altresì includere molte madri separate e i loro bambini. Nel 1974, il noto psicologo infantile Bronfenbrenner osservava che del “numero di bambini statunitensi sotto i sei anni che vivevano in povertà, il 45% di loro erano membri di famiglie di genitori separati”. In Australia, Canada, Germania, Lussemburgo, Olanda, Norvegia e Usa, le imposte comunali di povertà per famiglie guidate da una madre separata sono almeno tre volte più alte che per due genitori non separati. Da allora la situazione è peggiorata, cosa pienamente prevedibile, dal momento che lo sviluppo economico, per sua stessa natura, porta necessariamente alla disintegrazione sociale e all’atomizzazione. Negli Stati Uniti, ad esempio, il numero di famiglie guidate da una donna separata è aumentato di due volte e mezzo, nel Regno Unito di circa tre volte e in Canada è quasi raddoppiato. Non è sorprendente che la povertà infantile nei paesi dell’OCSE sia in generale sostanzialmente cresciuta durante lo stesso periodo. Tra il 1972 e il 1994, ad esempio, è raddoppiata in Germania e triplicata nel Regno Unito. La povertà ha anche un’importante componente psicologica cui il sociologo francese Emile Durkheim si è riferito parlando di anomia – termine adottato da altri eminenti sociologi come Robert McIver. Secondo quest’ultimo, le persone soffrono di anomia “quando le loro vite sono vuote e senza scopo, prive di significative relazioni umane”. È nei quartieri poveri delle città industriali moderne che la disintegrazione e la privazione sociale o anomia che essa determina è più avanzata, e questo causa una forma di povertà largamente assente nelle società tradizionali, e che sotto certi aspetti è persino meno tollerabile di quella che esiste nei quartieri poveri delle città del Terzo Mondo come Calcutta. Come dice Robert Wurmstedt, “la povertà nei vicinati neri portoricani nella parte ovest di Chicago è peggiore di ogni povertà che ho visto in Africa occidentale. Qui la gente è guidata da forti valori tradizionali. Non vive nella costante paura della violenza, degli animali nocivi e del fuoco. Non troviamo lo stesso senso di disperazione e mancanza di speranza di un ghetto americano”. Una delle molte ragioni per cui lo sviluppo causa disintegrazione sociale e anomia è che, essendo sempre di più assunte dallo stato e dalle corporazioni le funzioni chiave un tempo compiute dalle famiglie e dalle comunità, questi elementi sociali chiave semplicemente si atrofizzano, come muscoli a lungo non utilizzati, e così, tra l’altro, la gente viene privata di quella che è di gran lunga la più umanitaria e affidabile delle fonti di sicurezza. La massa delle persone nel mondo industriale non se ne rende conto. Per acquisire sicurezza, contano su investimenti personali, sul proprio lavoro e sullo stato sociale. Tuttavia, nel contesto dell’economia altamente instabile che abbiamo creato, gli investimenti sono assai speculativi, come vediamo oggi con il massiccio crollo nelle azioni tecnologiche e con il collasso delle economie asiatiche nel 1997 e all’inizio del 1998. E soprattutto, con l’odierna economia globale c’è ora una spietata concorrenzialità, il che significa che le corporazioni, per sopravvivere, debbono ridurre i costi all’osso, e questo comporta, tra l’altro, che il lavoro deve essere “flessibile”, per cui i contratti a lungo termine sono stati sostituiti da contratti a breve termine, molti lavori a tempo pieno sono diventati a orario ridotto, ed è sempre più semplice e persino meno caro licenziare impiegati quando risulta conveniente farlo. Il lavoro così si precarizza sempre di più, mentre al contempo lo stato sociale, per ridurre di nuovo i costi dell’industria, viene sistematicamente smantellato. Poiché questo processo riguarda un grande numero di persone che vivono in una società sempre più disumana e sempre più priva del sostegno della famiglia e della comunità, esse si troveranno praticamente sprovviste di ogni forma di sicurezza e con ciò confluiranno nella proliferante moltitudine dei poveri e degli indigenti. Tuttavia, la povertà odierna non è niente paragonata a quello che sarà quando le ciniche politiche di sviluppo dell’Organizzazione Mondiale del Commercio (WTO) verranno pienamente realizzate. L’Accordo Generale sul Commercio e i Servizi (GATS) del WTO, relativo appunto a tutti i servizi statali, copre ogni aspetto della cura della salute, dell’istruzione primaria, secondaria e universitaria, i servizi idrici e ambientali; in esso sarebbero inclusi anche la ricerca e il controllo ambientale. Per le corporazioni transnazionali questa è ovviamente una fantastica cuccagna, è stato loro assegnato un colossale nuovo mercato da sfruttare, con l’istruzione, la salute, e la sola acqua che rappresenta un mercato di 5-6 miliardi di dollari. Questo significa che proprio tutti i servizi che lo stato in origine prendeva in consegna dalle comunità locali, e che erano largamente sovvenzionati dal pubblico e potevano essere gratuitamente forniti ai bisognosi, sarebbero ora tutti gestiti da enormi e totalmente irresponsabili corporazioni transnazionali che farebbero pagare per essi il prezzo massimo possibile – creando un numero senza precedenti di poveri specialmente nei paesi del Terzo Mondo, che con ciò sarebbero privati dell’accesso alle fondamentali esigenze della vita. Ma questo non è tutto; in conformità con le regole del WTO, i mercati sono stati ovunque nel mondo aperti ai molto sovvenzionati prodotti alimentari statunitensi. Ciò è già iniziato in India, con risultati devastanti. Da qualche parte ci sono due-tre milioni di piccoli agricoltori in India, Cina, Indonesia, Tailandia, e in altre zone dell’Asia del sud e di sud-est, dove la dimensione media di una fattoria è solo di pochi acri. Pochi probabilmente per sopravvivere all’apertura dei loro mercati – pochi anche per artigiani, piccoli negozianti e venditori ambulanti che dipendono interamente dall’agricoltura comunitaria. La maggior parte di queste persone sfortunate saranno costrette a cercare rifugio nei quartieri poveri delle più vicine conurbazioni e, senza terra su cui far crescere il loro cibo, senza lavoro – dato che il livello di disoccupazione in questi quartieri poveri è già spaventoso – e senza sussidi di disoccupazione, saranno ridotti in uno stato di totale indigenza. Ma il principale contributo dello sviluppo economico all’aumento della povertà nel mondo è la produzione di sempre più grandi quantità di gas responsabili dell’effetto serra che causano il riscaldamento globale. Questo è di gran lunga il maggiore problema che l’umanità abbia mai affrontato, ed infatti se non invertiamo rapidamente questo processo totalmente distruttivo, molta parte del nostro pianeta sarà presto largamente inabitabile con sempre più gravi ondate di calore, alluvioni, siccità, tempeste, aumenti dei livelli marini, che determineranno massicce migrazioni di profughi impoveriti e quasi morti di fame attraverso la superficie del nostro pianeta. Se dunque continueremo a non fare nulla a questo riguardo, lo sviluppo avrà effettivamente eliminato la povertà, dato che il mondo diventerà totalmente inabitabile e gli esseri umani, ricchi o poveri, saranno incapaci di sopravvivere.