"Lavorare stanca"... e uccide



di

Alessandro Riccini

regredire modernamente mentre la crisi si avvita


.......(omissis....)  Dunque, ci troviamo a una costruzione logica apparentemente inattaccabile, a una sequenza di eventi descritta in modo tale da sembrare ineluttabile. E, infine, di fronte a una verità che appare con una plastica evidenza (forse anche perché ripetuta in maniera ossessiva dai media). Si tratta di una verità, però, ottenuta tramite una sequenza di "veli" che coprono il reale stato delle cose. Proviamo ad esaminarli:


I veli della vergogna


Il velo della produttività

La produttività viene qui intesa, come "disponibilità a sacrifici notturni e festivi". Si tratta di un uso improprio del termine: la produttività, infatti, si intende come tempo speso dal produttore per realizzare l'unità di prodotto. La produttività, dunque, aumenta se cambiano gli strumenti del lavoro: è chiaro che si fa molto prima a scrivere un documento tramite word che a dattilografarlo con la lettera 22. Quello che qui si intende come produttività è invece, semplicemente, la "disponibilità al sacrificio" del lavoratore che, sicuramente, compatibilmente con le esigenze del capitale, può aumentare il numero di merci prodotte, ma in termini di volumi e non di pezzi realizzati dal lavoratore nell'unità di tempo. Questo viene specificato non per semplice pignoleria, ma per una questione sostanziale: quando di parla di aumentare la produttività (locuzione, questa, estremamente "sexy e televisiva") in definitiva, si vela un discorso molto più inverecondo e telegenico, ossia la dilatazione tout court dell'orario di lavoro al fine di adeguarsi ai livelli di paesi a capitalismo meno maturo dell'Italia, il che, in Italia, significa tornare indietro di sette-otto lustri sul fronte delle condizioni soggettive del lavoro (sì, ma la chiamano modernizzazione ...). Così può accadere, come si apprende dal sito del Sole 24 Ore del 19 novembre che "la Fiom ha denunciato che la direzione dello stabilimento della Fiat di Termoli ha tentato di impedire alle lavoratrici madri che usufruiscono dei permessi di riposo per allattamento (due ore al giorno) di godere del diritto alla mezz'ora di mensa retribuita prevista dal contratto per i turnisti". Siamo davvero sicuri che queste operazioni rappresentino un "ammodernamento", piuttosto che una "regressione"? Ed ancora: si può sostenere seriamente che comprimere le pause nell'orario di lavoro aumenti la "produttività"?

Se si aggiunge che la vulgata marginalista spesso associa alla produttività il livello dei salari, si trova anche la giustificazione "teorica" ad abbassare, ulteriormente, il livello del costo del lavoro.

Il velo del costo del lavoro

L'impietoso paragone tra il costo del lavoro in Italia e quello "in India e Cina" parte dal presupposto che il salario sia la paga che retribuisce l'intera attività lavorativa dell'operaio. Sembrerebbe quasi che in Cina il valore stesso del "lavoro" sia inferiore, e quindi ne derivi un minor livello dei salari, che nei paesi a capitalismo maturo deve adeguarsi in fretta, perché se di là il lavoro viene a valere di meno, e quindi ad essere pagato di meno, allora anche di qua sarebbe il caso di ridurre la grandezza per salvaguardare la competitività. Sfugge, e non è un caso, in questo tipo di ragionamenti, che la busta-paga non è, per intero, il compenso per il lavoro dell'operaio ma solo una parte di esso. E che, in definitiva, si sta solo parlando di quanto comprimere la quota spettante, non di quanto compensare un valore (quello del lavoro) in calo per imprescindibili eventi storici. Illuminante, in tal senso, questo passo di Marx, nel capitolo del Capitale intitolato, non a caso, "Il salario": "Dato che il valore del lavoro è solo un'espressione irrazionale per valore della forza lavorativa, ne consegue in maniera evidente che il valore del lavoro deve essere sempre più piccolo del suo prodotto di valore, in quanto il capitalista fa funzionare la forza lavorativa per un tempo che è in ogni caso più esteso di quello occorrente per riprodurre il suo valore". Ed ancora, più avanti: "Del resto, ponendoci dalla parte del capitalista, la sua intenzione non è altra che quella di ricavare la quantità di lavoro più grande possibile per la quantità di denaro più piccola possibile. Praticamente, quindi, gli interessa soltanto la differenza tra il prezzo della forza lavorativa e il valore che produce il suo funzionamento. Egli però cerca di acquistare ogni merce al prezzo più basso possibile e giustifica il suo profitto con il semplice espediente di acquistare al di sotto e di vendere al di sopra del suo valore. Ed è per questo che non arriva a comprendere che, se esistesse veramente una cosa come il valore del lavoro se egli pagasse veramente questo valore, non esisterebbe alcun capitale, il suo denaro non si trasformerebbe in capitale".

Vista sotto quest'ottica, dunque, quello che qui si chiede è che i lavoratori dei paesi a "capitalismo maturo" rinuncino ad una fetta ancora più grossa della propria paga. Insomma, in due parole: aumentare la pressione del saggio di sfruttamento. Dando per scontato che il saggio sia flessibile verso l'alto e rigidissimo a scendere: insomma, nessuno si sogna di chiedere un saggio di sfruttamento meno elevato per i lavoratori di Cina ed India.


Conseguenza dei veli: la teoria del Pavesino

L'accettazione di questi dogmi porta, conseguentemente, alla ricerca, da parte degli intellettuali "laburisti" e riformisti, a soluzioni che rischiano di manifestarsi come velleitarie ed inefficaci: ne è l'emblema quella che si potrebbe chiamare "teoria del pavesino", dalla tipica forma del biscotto, sostenuta, ad e-sempio, da Scalfari stesso: dal momento che la disuguaglianza tra i lavoratori del mondo tende ad assottigliarsi nei vasi comunicanti della prima area (primo lato del pavesino) allora occorre creare, all'interno dei paesi cosiddetti "ricchi" altri vasi comunicanti tra ricchi e poveri (secondo lato del pavesino): "Qualche cosa si può e si deve fare. Ma occorre molta lucidità e molto coraggio. I paesi opulenti, al loro interno, non sono affatto livellati per quanto riguarda la diffusione del benessere. Ci sono, nelle zone ricche del mondo, sacche di povertà impressionanti e diseguaglianze mai verificatesi prima con questa intensità. Voglio dire che la legge dei vasi comunicanti deve entrare in funzione dovunque e spetta alla politica rimuovere gli impedimenti che la bloccano. Perciò i sindacati e le forze di opposizione debbono spostare l'obiettivo". Le categorie svantaggiate e costrette a rinunciare ad una parte delle conquiste raggiunte nell'epoca "prima di Cristo" debbono recuperarle su altri piani e in altre forme nell'epoca del "dopo Cristo". Debbono cioè impostare un piano globale di redistribuzione del reddito da chi più ha a chi meno ha". Manca un aspetto, in questo ragionamento: i fatti dimostrano che, col peggiorare della crisi, la tendenza è esattamente opposta. Lo fa presente il Financial Times, in un articolo non a caso chiamato "i peggiori 3 anni della nostra vita": "Negli Stati Uniti, l'enorme crescita della disuguaglianza e la stagnazione dei redditi reali ha messo in discussione da tempo questo patto. Il professor Rajan osserva che "su ogni dollaro di crescita dei redditi reali generata fra il 1976 e il 2007, 58 centesimi sono andati all'1% più ricco delle famiglie". E' un dato realmente sconvolgente. La ricchezza, insomma, si concentra sempre in meno mani. E, come, conseguenza, la povertà dilaga.

Tornando, all'Europa, sono significative le parole di Thorbjorn Jagland, che è segretario generale del consiglio d'Europa: "purtroppo la crisi in atto ha accentuato il divario tra le classi sociali. Talvolta i problemi economici globali sono addirittura una scusa per calpestare i diritti umani e prevaricare chi è già infelice, indipendentemente dalla crisi. Basta pensare che in Europa 150 milioni di persone su 800 - è l'allarme recentemente lanciato dal commissario per i diritti umani Thomas Hammarberg - vivono al di sotto della soglia della povertà. Significa che il 20% dei cittadini europei hanno seri problemi di sopravvivenza". Sembrerebbe quasi, si potrebbe dire con malignità, che per mantenere i livelli produttivi in Europa, occorra far scivolare altri milioni di cittadini europei (di tutta Europa, si noti bene, non solo della parte cosiddetta "opulenta") sotto la soglia della povertà. Ma fermiamoci un attimo, ed analizziamo i due fenomeni: da una parte, in nome della competitività e di un errato concetto di "produttività", si incitano "riforme" che depauperino i lavoratori, prendendo a pretesto le condizioni peggiori di altri lavoratori concorrenti in altri paesi, sempre con la pistola del dumping puntata contro. D'altro lato, la tendenza in atto, e non da ieri, è quella di sottrarre sempre più ricchezza (in rapporto a quella prodotta) alle classi subalterne, ovunque, sia nei paesi cosiddetti ricchi, che poveri, che "in via di sviluppo": i miglioramenti dello standard di vita del lavoratore cinese, spesso riportati in vari trattati, non tengono conto della percentuale di prodotto che si distribuisce tra capitale e lavoro e, in definitiva, di quello che è il saggio di sfruttamento. Ignorando questo, la vulgata liberista, anche se appartenente ad area cosiddetta di sinistra, predica come antidoto una diversa divisione del prodotto come livellamento ex post della ricchezza prodotta, fermo restando l'aumento dello sfruttamento iniziale. Basterebbe una semplice constatazione dal punto di vista puramente storico per confutare l'ipotesi secondo la quale questa via sarebbe praticabile: nelle fasi di crisi la disuguaglianza aumenta, non diminuisce: è il modo di produzione che tende a produrre "naturalmente", per così dire, disuguaglianze e polarizzazione della ricchezza.

Tanto per rendersene conto, a titolo puramente indicativo, osserviamo l'andamento della concentrazione della ricchezza negli ultimi 20 anni: ad esempio, nelle conclusioni del rapporto World of Work 2008 elaborato dall'International labour organization[www.ilo.org], il focus si allarga ulteriormente: tra l'inizio degli anni '90 ed il 2007 (siamo dunque nel pieno della crisi da sovrapproduzione innestatasi ormai alla fine degli anni '60) la quota di reddito persa da buste-paga e salari, nel complesso nelle economie "avanzate" è stata del 9%, a tutto vantaggio di profitti e rendite (si noti a margine che, come è risaputo, anche all'interno del monte-salari, la disuguaglianza della distribuzione dei redditi è in continuo aumento: basti pensare che nel 2007 gli amministratori delegati (ad o ceo) delle 15 principali società Usa hanno guadagnato 520 volte più di un dipendente medio. Nel 2003 la distanza era pari a 360 volte, com'è mostrato anche da Guido Plutino, www.fondfranceschi.it, in Effetti sociali della crescente disuguaglianza economica). L'Italia, in questa situazione, si distingue per la crescita senza soluzione di continuità della "fetta di torta" che viene mangiata dalla rendita: in particolare, la rendita immobiliare è passata dal 5,6% del 1981 al 12,9% del 2007. Tornando su scala planetaria, aldilà dei numeri, che comunque hanno la loro importanza, ciò che interessa è l'apparente contraddizione tra il "merito" dell'attuale fase storica che spesso viene riconosciuto, ossia, l'elevamento del tenore di vita nei paesi del bric, contrapposta all'indubbio peggioramento dei paesi a capitalismo maturo, e la crescita della disuguaglianza che, comunque, non si arresta né di qua ne di là. Questo fenomeno è spiegato semplicemente con la differente fase dello sviluppo del modo di produzione nei due blocchi, non ci si illuda, il germe della decadenza è nel saggio di sfruttamento che cresce e nella disuguaglianza che cresce con lui.

Ma lo Stato
... Non è difficile che, chi si trovi a condividere i ragionamenti sin qui svolti, prospetti come soluzione alle problematiche brevemente accennate poc'anzi il ricorso alla saggia mano dello stato che, con il buon senso del padre di famiglia, intervenga per mitigare le "disuguaglianze" all'interno della distribuzione dei redditi dei singoli stati sovrani, con una diversa politica dei redditi di stampo keynesiano. Molto indicativa in questo senso l'audizione presso la commissione lavoro e previdenza sociale da parte della Cgil-Ires [24 settembre 2009]. Si sceglie questo documento in rappresentanza dei molti che, come il citato Scalfari, vorrebbero risolvere il problema compensando le disuguaglianze del modo di produzione con l'azione del governo. Si diceva, in tale documento vengono elencate 3 direttrici principali attraverso le quali agire:

- Contrattazione, al fine di far crescere i salari non solo in linea con l'inflazione reale, ma anche con la produttività, per l'equilibrio della crescita economica e soprattutto per riequilibrare la perdita cumulata delle retribuzioni, a favore dei profitti delle imprese, non reinvestiti a sufficienza a favore del sistema produttivo, o più semplicemente a favore delle rendite.

- Fisco, per una equa redistribuzione e per far crescere il reddito disponibile reale dei lavoratori dipendenti e dei pensionati.

-  Welfare, per uscire dalla povertà e per sostenere il reddito degli individui e delle famiglie, a partire da quelle in difficoltà. Un welfare che sostenga i redditi netti attraverso i servizi necessari a far vivere la cittadinanza (interventi su prezzi e tariffe locali dei servizi di pubblica utilità, servizi per l'infanzia e per la non autosufficienza degli anziani, etc.) e, allo stesso tempo un "workfare" che consista piuttosto in politiche di welfareattivo finalizzate ad una piena e buona e sicura occupazione.

Esaminiamo, tanto per gradire, il primo punto: l'accordo separato di Pomigliano del luglio 2010. L'accordo sembra andare nella direzione esattamente opposta, attaccando innanzitutto il diritto di sciopero, puntando dritto ad esasperare l'individualismo ed eliminando alla radice i possibili fattori di coesione tra i lavoratori, intensificando i tempi di produzione e lasciando sullo sfondo la "carota" (eventuale) degli investimenti, disponendo del "bastone" (per nulla eventuale) della minaccia della disoccupazione. Tale cambiamento, che viene salutato come "moderno" anche dai cosiddetti "riformisti", evidenzia un dato di fatto: finché permane tale modo di produzione, in tempi di crisi i diritti dei lavoratori sono destinati a "regredire modernamente". Finché tale rimane il modo di produzione, gli stati sovrani saranno costretti ad indebitarsi per socializzare le perdite generate dal capitale in crisi da sovrapproduzione, e quindi dovranno agire sul salario indiretto e differito per non fare bancarotta (se ci riusciranno). Infine, finché tale è il sistema di produzione, il sistema fiscale non può assolutamente, in tempo di crisi, garantire una perequazione ex post dello smottamento precedente di ricchezza, essendo anch'esso vincolato al bilancio statale; proprio ciò a cui in questi giorni stiamo assistendo: l'Irlanda rischia seriamente un clamoroso default, chiede aiuti ai partner europei ma si attacca, testardamente, alla famigerata aliquota del 12,5%: il ministro delle finanze Irlandese, Brian Lenihan, ha definito tale sciagurata aliquota per gli utili di impresa "una linea rossa invalicabile"; sembra invece tutt'altro che invalicabile la linea rossa dei tagli al welfare [tagliati 25 mila posti di lavoro nel settore pubblico e 1,4 mrd € agli stipendi pubblici, salari minimi orari ridotti da 8,65 a 7,65 €; tagli allo stato sociale per 2,8 mrd €, aumento dell'Iva fino al 23%, entro il 2014 e delle imposte sul reddito per altri 2 miliardi], che faranno pagare alle classi subalterne il conto degli inevitabili salvataggi bancari.


Si ritiene, dunque, che i tre punti delineati poc'anzi dalla Cgil siano intenzioni non traducibili nella realtà, data la fase storica: sarebbe il caso di chiedersi, piuttosto, come mai, dall'inizio della crisi da sovrapproduzione in poi, i salari abbiano perso costantemente valore a tutto vantaggio dei profitti, con la complicità del sistema fiscale, che svolge questo compito anche in paesi con un livello di evasione decisamente più basso dell'Italia. Sarebbe il caso di verificare cosa è aumento della produttività e cosa è semplicemente aumento del tempo di lavoro. Se si facesse, sarebbe più facile che si riuscisse ad avere coscienza di quale sia il vero nocciolo della questione, ossia i rapporti di proprietà. Quanto al welfare, da quarant'anni ormai sotto attacco costante, ci si deve rendere conto che l'intervento degli stati sovrani per evitare il crollo sistemico nel corso dell'ultima crisi abbia un conto da pagare, e come questo conto sia tutto sulle spalle di lavoratori dipendenti e pensionati, e come, infine, questo conto rappresenti la spada di Damocle sul welfare state: chiederne l'aumento significa, nell'attuale fase storica, abbaiare alla luna. Meglio, molto meglio, sarebbe alimentare la coscienza delle classi subalterne, smascherando la falsità del salario come retribuzione del valore del lavoro, togliendo così l'acqua dove nuota il pesce dei "sacrifici indispensabili" resi necessari dalla presenza, nelle aree povere del mondo, di operai pagati ancor meno che da noi.