Cosa c’è dietro la crisi irlandese. Intervista a Emiliano Brancaccio

di Vittorio Bonanni


Difficile capire le ragioni della crisi in Eire. Quando gli stessi fatti si sono verificati in
Grecia il governo di Atene era stato considerato responsabile per i troppi "privilegi" dei
quali godevano, o avrebbero goduto, i lavoratori ellenici. Insomma, troppo stato sociale
avrebbe causato la bancarotta. Ma come spieghiamo che lo stesso è avvenuto a Dublino
dove sono state adottate politiche restrittive fatte di tagli e di contenimento del debito?
Per i pasdaran del capitalismo senza freni l'Irlanda ha rappresentato un esempio da seguire.
Debito pubblico irrisorio, stato sociale minimo, tutela del lavoro inesistente e invece una
aggressiva politica di abbattimento delle tasse sulle imprese e di deregolamentazione
finanziaria. Questa politica per un certo tempo ha generato una bolla speculativa e tassi di
sviluppo piuttosto elevati, ma anche un pesante indebitamento del settore privato.
L'esplosione della crisi globale ha reso tale debito in larga misura inesigibile. E' questo il
motivo principale per cui gli speculatori si sono scatenati. Adesso il governo irlandese cerca
di metterci una pezza scaricando le insolvenze dei privati sul debito pubblico e chiede aiuto
all'Europa e al Fondo monetario internazionale in cambio di misure draconiane che colpiranno
in primo luogo i lavoratori.


Ma in questo modo la crisi non si risolve....
Anzi si aggrava. Ricordo che nel giugno scorso abbiamo pubblicato la "Lettera degli
economisti", un documento sulla politica economica europea e nazionale sottoscritto da oltre
250 esponenti della comunità accademica e degli enti di ricerca. La "Lettera" ci dice che la
crisi economica globale iniziata nel 2008 trova una delle sue cause scatenanti in una crescente
contraddizione sociale tra i tentativi di comprimere i redditi e le capacità di spesa dei
lavoratori e al tempo stesso di aumentare il grado di sfruttamento e la produttività degli stessi.
Questa contraddizione ha alimentato una crisi di realizzo che rischia di aggravarsi proprio a
causa delle attuali politiche restrittive, che ancora una volta si vuol fare ricadere sui lavoratori.
Il problema è che tali politiche sono sostenute da un coacervo di interessi al momento
prevalenti, che si riflettono soprattutto nel modo in cui il paese-guida della zona dell'euro,
cioè la Germania, ha deciso di interpretare e sfruttare la crisi.


Unicamente a proprio vantaggio, mi sembra....
Il punto è che l'economia tedesca gode di un elevato grado di organizzazione e di
centralizzazione dei capitali, che genera crescita della produttività e riflette una eccezionale
capacità competitiva. A ciò si aggiunge una politica tedesca di contenimento della spesa e dei
salari in rapporto alla produttività. Questa combinazione ha consentito ai capitali tedeschi di
penetrare nei mercati esteri dei paesi più deboli, e ha fatto sì al tempo stesso che la Germania
comprasse poco accumulando crediti verso gli altri paesi europei, i quali invece si sono
corrispondentemente indebitati. Questa profonda asimmetria all'interno della Unione europea,
nella crisi globale che stiamo attraversando, alimenta una ulteriore contraddizione di tipo
territoriale, dagli esiti potenzialmente distruttivi.


Che idea c'è dietro questa ulteriore contraddizione?
La visione che prevale nell'establishment tedesco è che il riequilibrio tra i vari paesi europei
deve restare interamente a carico dei paesi debitori, i quali dovranno riaggiustare la loro
posizione attraverso l'abbattimento dei salari e delle capacità di spesa. Ma questa linea
accentua e non corregge gli squilibri, poiché tra l'altro determina ritmi di sviluppo ancor più
sbilanciati tra i paesi. Per cui evidentemente la Germania riesce a risalire un po' la china della
recessione mentre gli altri entrano in una situazione di crisi strutturale, che può diventare
irreversibile. Il rischio è quello di una vera e propria desertificazione produttiva delle aree
periferiche dell'Unione europea e processi migratori ancor più intensi verso le aree centrali.
Ma in fondo questo pericolo viene messo in conto da chi mira a fare dell'Europa una sorta di
"grande Germania", con il capitale accentrato soprattutto in mani tedesche e i paesi periferici
che fungono da meri azionisti di minoranza e fornitori di manodopera a basso costo.


Come si esce da questa situazione?
Molti oggi si augurano che si faccia avanti una "borghesia illuminata" che rimetta in sesto le
cose. La storia tuttavia ci insegna che "i lumi" in genere scaturiscono dal conflitto sociale, e in
particolare dal pungolo del movimento dei lavoratori.
Venendo all'Italia, anche qui la crisi economica potrebbe costringerci a seguire le
indicazioni del Consiglio dell’Unione europea che il prossimo 15 dicembre potrebbe
"consigliare" una manovra pesantissima per il nostro Paese. E con un governo
traballante. 


Che cosa dobbiamo aspettarci?
Mi auguro che il 15 dicembre, quale che sia lo status del governo in carica quel giorno, l'Italia
si opponga agli attuali indirizzi di politica economica europea, e in particolare dica con
chiarezza "no" a una eventuale stretta europea sulla gestione del nostro debito pubblico. Dire
"no" è senz'altro possibile. La Lettera degli economisti offre una traccia per un indirizzo
politico alternativo. Del resto, uscire dalla linea di recessione e di repressione sociale in cui si
è infilata l'Unione europea richiede oggi una netta presa di posizione da parte delle autorità
dei paesi periferici. Tutti gli eredi più o meno diretti della tradizione del movimento operaio
dovrebbero capire che all’interno della Unione questo è il tempo della dialettica politica, non
della vuota retorica europeista.