Futuro Grecia

[di Raffaele Sciortino] 
La Grecia è oggi l'oggetto immaginario di una
proiezione. Capro espiatorio dei malanni dell'euro, bersaglio di
esorcismi di massa nei confronti della crisi globale - non era in via di
superamento? -, punto di precipitazione della costruzione europea.
Insomma il "colpevole" finalmente rinvenuto della situazione delittuosa.
Ma come ogni falsa proiezione che configura anche ciò che è più
familiare come nemico (Adorno), essa si basa sulla inconfessabile
sensazione che il male - la presa ferrea della ricchezza astratta
finanziaria sulle nostre vite - è già qui e non necessita del contagio
per diffondersi.

Crisis is not over

Finito il primo round della crisi globale, la finanziarizzazione ha oggi
cambiato veste producendo la bolla speculativa dei debiti sovrani. La
logica, neanche tanto recondita, l'aveva ben sintetizzata Stiglitz
qualche mese fa: "I governi hanno contratto molti debiti per salvare il
sistema finanziario, le banche centrali tengono i tassi bassi per
aiutarlo a riprendersi oltre che per favorire la ripresa. E la grande
finanza che cosa fa? Usa i bassi tassi di interesse per speculare contro
i governi indebitati. Riescono a far denaro sul disastro che loro stessi
hanno creato» (Stiglitz: fanno soldi sul disastro che loro hanno creato).

Il meccanismo di base è analogo alla bolla dei mutui subprime, fare
ricchezza col debito, ma con due ulteriori implicazioni. Ad essere messa
sotto ipoteca è oggi direttamente la ricchezza di interi paesi, a
partire dalle prestazioni del welfare. Inoltre, in mancanza di una
prospettiva in Occidente di ripresa consistente della crescita economica
e degli introiti fiscali, i mercati riforniti di denaro a basso costo
sulla piazza americana (carry trade) oramai scommettono al ribasso sul
fallimento di questo o quel bilancio statale. I governi indebitati
infatti trovano, e troveranno, sempre più difficoltoso rifinanziarsi (un
dato: Deutsche Bank valuta in 900 miliardi di dollari il fabbisogno di
liquidità di Portogallo, Italia, Irlanda, Grecia e Spagna per il 2010).
Sono dunque inevitabili da un lato la concorrenza tra i singoli stati
per accaparrarsi denaro fresco, dove a contare non è solo il peso
economico ma anche quello politico-militare, e dall'altro le ulteriori
difficoltà dei sistemi bancari di volta in volta esposti (o più esposti:
nel caso greco le banche francesi e tedesche).

Tra Berlino e Washington

Il default della Grecia - la cui trasformazione economico-sociale è un
caso da manuale di finanziarizzazione, deindustrializzazione,
speculazione immobiliare sancite dall'evento Olimpiadi - è dunque un
passaggio del combinato disposto di quella concorrenza e della dinamica
sistemica della finanza globale. La novità è che questo passaggio
colpisce per la prima volta direttamente e pesantemente l'Unione
Europea. Se Atene piange Bruxelles e Berlino non ridono, ancorché da
posizioni di forza e con ricadute molte diverse. Non è qui possibile
entrare nel merito, ma non ci vuole molto a intuire che siamo di fronte
a un vero e proprio attacco all'euro portato dai soliti ig/noti -non c'è
sistema senza "attori"- a salvaguardia del dollaro come moneta di
riserva degli Usa (e in subordine anche della Gran Bretagna, paese che
finanziariamente è forse quello messo peggio). L'amministrazione Obama
ha abbozzato una manovra per scaricare parte dei costi della crisi su
Pechino che però ha, fin qui almeno, resistito bene (v. lo scontro sulla
rivalutazione dello yuan, che forse ci sarà ma non alle condizioni di
Washington, e i primi accenni a diminuire l'acquisto cinese di bond del
tesoro statunitensi).L'Europa rischia allora fra i due di fare il ruolo
del tertium non gaudens, e non a causa di un fantomatico "pericolo
giallo" ma perché Washington sta tentando con successo di farle bruciare
capitali e insieme di incrinare il potenziale ruolo dell'euro di
proporsi come alternativa al dollaro come moneta di riserva mondiale,
anche al rischio di far precipitare il suo già fragile percorso di
integrazione politica ed economica. L'economia tedesca, inoltre, è
quella meno esposta sul fronte dell'indebitamento privato e statale
(leggi su Pimco) e dunque potenzialmente più in grado di tracciare le
linee di una riconfigurazione del mercato mondiale che, anche guardando
a Pechino e Mosca, sia meno prono alla presa finanziaria statunitense
sulla ricchezza mondiale. Se è così, siamo solo alle prime avvisaglie di
una guerra che offrirà altre sorprese e di cui la diatriba sulle agenzie
di rating potrebbe essere l'assaggio (leggi su Corriere della Sera). Non
coglie dunque nel segno chi vede in quanto sta accadendo esclusivamente
o prevalentemente una dinamica interna alla Ue, che la si legga poi in
termini anti-tedeschi (Merkel egoista o lenta) o peggio anti-greci (quei
corrotti e fannulloni...). Qui la partita si gioca (anche e
fondamentalmente) a un livello più alto, di sistema globale.

Quale Europa per Berlino?

Questo non significa affatto che Merkel&C. siano degli stinchi di santo
che pensano al bene di una presunta "casa comune europea". Tutto il
contrario.

Primo. La Grecia è un paese nei fatti commissariato. La manovra imposta
ad Atene è senza precedenti per ampiezza dei tagli e obiettivi di
bilancio da raggiungere. E in cambio cosa sono i famigerati "aiuti"
offerti? Facciamolo dire all'economista guru del Financial Times Martin
Wolf: "ufficialmente è un salvataggio della Grecia, ma in realtà è un
salvataggio delle banche" tedesche, francesi, italiche, ecc. (leggi suIl
Sole 24 ore). In questo modo, due piccioni con una fava, i leaders
europei attuano un bail out del proprio sistema bancario senza farlo
apparire come tale ai propri cittadini e anzi scaricando le paure
sull'irresponsabilità dei greci (tutti) (leggi su Washington post).
Senza contare che gran parte di questi aiuti sarà non di denaro cash ma
di titoli emessi a tassi oramai per Atene inaccessibili.

Secondo. Al di là di preoccupazioni e dissidi interni, il governo
tedesco è tutt'altro che attento ai soli equilibri di casa. Berlino si
trova di fronte l'opportunità, certo in condizioni difficili e non
cercate, di operare un giro di vita sulla costruzione europea e sui
"criteri di stabilità". Basta scorrere la stampa tedesca o assistere a
un dibattito in Tv (lì si discute davvero anche in televisione) per
vedere come si cerchi di far passare nell'opinione pubblica che l'unica
condizione per la stabilità dell'euro è da un lato il rigore finanziario
estremo imposto a casa e soprattutto ai partner reprobi e spendaccioni
e, dall'altro, l'incentivazione di una competitiva capacità produttiva
che però in certe zone europee non c'è mai stata (Spagna, Grecia,
Portogallo) mentre in altre (Gran Bretagna, Olanda, Italia, Belgio e,
meno, in Francia) sta rapidamente scomparendo. Frau Merkel sta
sfruttando la crisi greca per dimostrare agli altri membri che se
vogliono salvarsi hanno una sola opportunità: entrare nel suo cono
d'ombra e trasformarsi senza eccessive pretese in terminali integrati e
sottomessi all'apparato produttivo tedesco (non da ora la Germania
guarda alla cartina europea a partire da un nucleo duro e per cerchi
concentrici). E' solo su questo piano, e pensando in funzione di tempi
medi-lunghi, che per Berlino si decide la stabilità della moneta
europea. Del resto nel capitalismo globale solo grandi compagini
continentali hanno la possibilità di giocare da protagonisti. Dunque: il
patto di stabilità è oramai sotto riesame e non proprio nei termini in
cui speravano certi keynesiani. Sarà da vedere se la Germania riuscirà a
ri-centralizzare l'Europa alle sue dure condizioni e insieme convincere
la propria popolazione che il problema sta ad Atene, Madrid, ecc. e non
nella finanza globale con banche tedesche annesse...

Variabile non calcolabile

Le trasformazioni del capitalismo globalizzato non hanno lasciato
indenne la società greca. Negli anni dei "soldi facili", nel mentre
aumentavano la polarizzazione sociale e la precarizzazione,
speculazione, affarismo, corruzione, ecc. l'hanno fatta da padrona
arricchendo anche un ceto medio dei servizi FIRE ma coinvolgendo a
cascata, inutile nasconderselo, altri strati di popolazione lavoratrice,
anche attraverso lo scambio politico delle assunzioni nel pubblico
impiego (in assenza, attenzione, di un vero welfare universalistico).
Sono processi niente affatto peculiari della sola Grecia. Ciò non ha
impedito che lì si sia sedimentata negli ultimi anni l'antagonismo di
una composizione sociale nuova, soprattutto giovanile e migrante, che
oggi - di fronte allo choc della crisi globale - sta facendo da tramite
per una mobilitazione più ampia.

E' la variabile non prevista, e temuta, nei calcoli delle élites europee
e globali. Nessuno può dire come evolverà. Ma sicuramente questa
mobilitazione - in condizioni difficilissime e finora di sostanziale
isolamento (stendiamo un velo pietoso sui sindacati e le "sinistre"
europee) - parla un linguaggio non solo greco perché ha di fronte
l'esperienza del rovesciamento catastrofico, dall'oggi al domani, del
lato accattivante di quella finanziarizzazione che è divenuta il codice
universale impresso sulla vita di noi tutti in Occidente.

Un codice, oggi si vede, di spoliazione assoluta che ripropone anche
nelle zone "avanzate" del pianeta una sorta di accumulazione originaria
che succhia senza ricreare le condizioni della riproduzione sociale. Non
a caso la piazza greca sta ponendo la questione cruciale: di chi è il
debito? Se la risposta, almeno nella gran massa che sarebbe anche
disponibile a sacrifici purchè più "equi", non è ancora il rifiuto
integrale di pagarlo, siamo però al primo passo in questa direzione. Se
poi la radicalizzazione combinata con la capacità di tenere un livello
di mobilitazione di massa dovesse andare avanti, il passaggio successivo
potrebbe essere il Que se vayan todos dell'Argentina 2001. Un passaggio
politico, di espressione di potenza comunitaria, che creerebbe lo spazio
per il lavoro più difficile: iniziare a ricostruire autonomamente le
condizioni di riproduzione della società allorché queste vengono
distrutte dalla riproduzione sistemica capitalistica. E allora il
contagio...