INTERVENIRE PRIMA CHE PASSI LA NOTTATA

Disoccupazione all’8,6 per cento, record dal 2004”, “Pil -5 per cento, mai così male dal 1971”. Ecco le ultime notizie da un fronte che non smette mai di fare feriti (e morti, come scriveva Dario Di Vico sul Corriere della Sera, raccontando di piccoli imprenditori e artigiani suicidatisi durante la crisi). Ma come, la crisi non era finita? E perché allora i giornali sono pieni di brutte notizie? Soprattutto, il governo può fare qualcosa?

LA CRISI È FINITA?
Cominciamo con la “la crisi è finita”. Finita quando? Difficile dirlo con precisione. Se si cerca su Google la locuzione “la crisi è finita”, vengono fuori una sequenza di riferimenti, di articoli di giornale e di blog, così come prese di posizione di operatori attivi sui mercati finanziari, con date molto diverse: 22 aprile, 21 marzo, 11 novembre, 27 agosto, 17 maggio 2009 solo nella prima videata.
Tutti i riferimenti annunciano lo stesso evento: la fine della crisi. Di sicuro il Pil, l’indicatore riassuntivo della capacità di produrre reddito che gli uffici statistici nazionali pubblicano ogni tre mesi, ha smesso di diminuire rispetto ai valori assunti nei trimestri precedenti nella maggior parte
dei paesi europei e negli Stati Uniti più o meno durante il terzo trimestre del 2009. La diminuzione del Pil è andata avanti per cinque trimestri, dal secondo trimestre 2008 fino al secondo trimestre 2009 (incluso). In complesso, il Pil italiano è sceso in termini reali di 5 punti percentuali nel 2009 rispetto al suo valore medio del 2008. Come in Germania e nel Regno Unito, peggio che in molti altri paesi europei, tra cui la Spagna e la Francia. Ma è stata solo una “grande recessione”, e non una “grande depressione” come quella degli anni Trenta: durante la depressione il Pil Usa diminuì di ben 25 punti percentuali nei quattro anni tra il 1929 e il 1933. Oggi stiamo parlando di previsioni di crescita flebile per il 2010. Ci chiediamo se sarà “più zero virgola cinque” oppure “più uno”, non se dopo il “meno cinque” ci sarà un “meno quattro” o un “meno sei”.
Ad oggi, ci sono elementi sufficienti per dichiarare che la crisi, o meglio la grande recessione, sia finita. Il mercato immobiliare americano ha fermato la sua discesa e il Pil ha ricominciato ad aumentare ovunque. E, da dicembre 2009, anche la disoccupazione Usa ha cominciato a diminuire, un segno che non solo l’epicentro della crisi (il mercato immobiliare Usa) si è stabilizzato, ma anche il suo principale meccanismo di trasmissione (il mercato del lavoro) comincia a mandare qualche
segnale positivo. Soprattutto al di là dell’oceano Atlantico.

LA LUNGA CODA DELLA CRISI SUL MERCATO DEL LAVORO
Il problema è che il Pil ha ricominciato a crescere, ma troppo lentamente per riuscire a riassorbire la disoccupazione latente che le imprese hanno accumulato in questi mesi di crisi durissima sul fronte delle vendite. Ecco perché, anche se “la crisi è finita”, il lavoro non c’è e “in Italia la disoccupazione
è ai massimi dal 2004”. È vero, i disoccupati erano più di due milioni e centocinquantamila persone in gennaio, l’8,6 per cento del totale. Mentre erano l’8 per cento a ottobre 2009 e il 7 per cento a ottobre 2008 e solo il 6 per cento nell’agosto 2007. L’aumento della disoccupazione è tuttavia – e purtroppo – un evento fisiologico, data l’intensità della crisi dell’anno scorso. Chi, resistendo al furore iconoclasta di questi mesi, avesse conservato un manuale di macroeconomia potrebbe infatti
controllare le previsioni della legge di Okun, una regola del pollice stimata per l’economia americana già negli anni Sessanta. Questa legge dice: “Se il Pil diminuisce di due punti percentuali
rispetto alle possibilità di crescita di lungo termine, la disoccupazione è destinata, dopo qualche mese, ad aumentare di un punto percentuale”. Insomma, secondo Okun, tra Pil e disoccupazione c’è una relazione 2:1.
E così, se il Pil dell’Italia scende di 5 punti in un anno e dato che la crescita di lungo periodo dell’economia italiana è all’1 per cento annuo, a causa della crisi, la disoccupazione in Italia deve salire di circa tre punti. Se, prima della crisi, siamo partiti dal 6 per cento di tasso di disoccupazione, sulla base della legge di Okun, possiamo aspettarci che la brutta botta subita dal Pil italiano nel 2009 finirà per tradursi in una disoccupazione non lontana dal 9 per cento in questi primi mesi del 2010. Per i primi nove mesi del 2009, la crisi non è arrivata sul mercato del lavoro perché il governo ha usato la Cig, che ha congelato il numero degli occupati ai livelli pre-crisi. Ma anche la Cig è destinata a diventare mobilità e poi licenziamento se l’economia non riparte. Ciò che vediamo oggi è dunque il manifestarsi della legge di Okun.

NON ASPETTARE CHE PASSI LA NOTTATA
Chi crede nella legge di Okun potrebbe trarre due implicazioni. Primo, il rapido aumento della disoccupazione osservato negli ultimi sei mesi non sarà indefinito, ma raggiungerà probabilmente
un tetto massimo. Almeno a patto che il Pil ricominci a crescere intorno all’1 per cento. Tutt’altro che scontato, ma non impossibile con i dati che conosciamo oggi.
C’è però una seconda cosa da dire. Anche se quelli che osserviamo sul mercato del lavoro sono solo i colpi di coda di una crisi alle spalle, c’è spazio per misure di sostegno ai consumi che
accompagnino il mercato del lavoro fuori dalla crisi, ad esempio gli incentivi temporanei (con efficacia limitata a sei mesi) ai settori in difficoltà di cui si parla da giorni e la cui adozione il governo continua a rinviare. È vero, tutti i produttori di tutto il mondo vogliono gli incentivi e poi non viene mai un buon momento per smantellarli. Ma, in questo caso, si tratta di garantire incentivi temporanei ai settori che producono elettrodomestici, dispositivi elettronici, macchine agricole, mobili, cucine e veicoli diversi dall’automobile. Non si tratta di tenere in piedi industrie decotte. In tutti questi settori,
le aziende dovranno e hanno già cominciato a ristrutturare, ma hanno bisogno di un po’ di ossigeno per farlo in modo socialmente non distruttivo. Non ci sono soldi per tutti? Il governo scelga
e spieghi i criteri che lo hanno indotto a decidere in un modo piuttosto che in un altro. Meglio scegliere e spiegare piuttosto che rinviare per non scontentare nessuno.